«Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni». Con questa frase, che suona come autocritica per un’intera classe dirigente, il Governatore Ignazio Visco ha suggellato le sue seconde Considerazioni finali. Che pur rifuggendo da toni esageratamente accusatori dipingono un quadro tutt’altro che rassicurante della situazione in cui versa il Paese. Non abbiamo saputo fare i conti né con la modernità né con la globalizzazione e per questo motivo siamo la landa d’Europa che cresce di meno e ha consentito che al suo interno si allargassero gli squilibri occupazionali e generazionali.
È vero che, rispetto a un anno fa, almeno due fattori sono cambiati in meglio: non appare immediato il rischio di un’implosione dell’euro; grazie alla Bce è stata superata la crisi di liquidità che rischiava di strangolare il sistema bancario. Ma il bilancio positivo si ferma qui. «A questi progressi non ha ancora corrisposto un miglioramento dell’economia reale» ha sottolineato amaramente il Governatore. Che pure senza intervenire direttamente nel dibattito sulle conseguenze dell’austerità ha voluto sottolineare come l’impatto negativo del rigore sulla crescita sia stimabile in un solo punto di Pil. Le riduzioni di imposte, per Visco, non possono che essere selettive e devono privilegiare senza alcun dubbio il cuneo fiscale.
La politica ha indubbiamente le sue responsabilità per il tempo perduto ma il Governatore non ha avuto remore a indicare quelle che giudica le colpe degli industriali. Troppo poche sono state le imprese che hanno accettato fino in fondo la sfida dell’innovazione, investendo risorse proprie, adeguando la struttura e i modelli organizzativi, puntando sulla discontinuità. La crisi naturalmente ha accentuato il divario tra globali e conservatori e reso stridente l’inadeguatezza di una parte del sistema produttivo. Secondo Visco ci sarebbe stato bisogno anche di un parallelo e profondo cambiamento dei rapporti di lavoro e del sistema dell’istruzione e invece, mentre molte occupazioni stanno scomparendo, avanza la ricetta di rimpiazzare i più anziani nel loro (obsoleto) posto di lavoro.
Non c’è dubbio che in questa analisi il Governatore abbia mostrato coraggio – e attirandosi i rilievi di Renato Brunetta – perché ha palesato il conflitto sotterraneo che divide banca e impresa e che sta alla radice dei rimbalzi di accuse sulla stretta creditizia e sulle sofferenze. Proprio mentre si sente la necessità di maggiore fiducia e stabilità nel rapporto tra imprenditori e banchieri cresce invece l’incomprensione. I dati sulla carenza di credito e le sofferenze, da elemento statistico vanno a comporre un muro psicologico.
L’assemblea della Banca d’Italia ha avuto il pregio di far uscire da dietro le quinte anche un secondo conflitto: quello che divide l’autorità di regolazione dai regolati. Le banche chiedono la possibilità di dedurre in un solo anno le nuove svalutazioni sui crediti e vorrebbero quantomeno la rivalutazione delle partecipazioni che detengono nel capitale di Via Nazionale. Il Governatore non può rispondere positivamente a entrambe le richieste e almeno ieri ha preferito spostare il confronto sulle condizioni di accesso al credito.
Visco ha assolto gli istituti di credito italiani dall’accusa di aver impiegato la liquidità fornita dalla Bce solo per investire in titoli di Stato ma ha fatto sua, persino al rialzo, la stima del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, che aveva quantificato in 50 miliardi la flessione di credito avvenuta a partire dal dicembre 2011. Il governatore ha aggiunto che il calo di credito, dopo un ritmo più contenuto, nei primi quattro mesi del 2013 si è di nuovo accentuato e i tassi bancari attivi per i prestiti alle imprese sono di un punto superiori a quelli medi dell’area dell’euro.
È un’analisi che le banche non sembrano condividere e ieri se ne è avuta la prova con l’intervento, tutt’altro che rituale, del presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro, che parlava nella sua veste di principale azionista e ha esposto un vero cahier de doléances . «La performance del sistema bancario appare sempre più condizionata dalla difficoltà di fare buon credito» ha detto indicando nel 60% in meno di reddito operativo l’impatto delle sofferenze sul conto economico. E individuando due cause principali: la lentezza delle procedure di recupero e il tempo eccessivo di permanenza nei bilanci dei crediti incagliati. Lo sforzo fatto dalle banche per adeguarsi alle regole di Basilea «non può essere ritenuto responsabile della contrazione nell’offerta di credito» ha aggiunto Gros-Pietro e a dimostrazione della sua tesi ha fornito il dato dei prestiti che continuano a superare la raccolta dai clienti di oltre 150 miliardi di euro. Urgono, dunque, canali alternativi di finanziamento delle imprese e una ripresa degli strumenti di credito a lungo termine. Prima che parlasse Gros-Pietro anche chi è a conoscenza delle divergenze tra Via Nazionale e mondo bancario non si sarebbe aspettato una loro esplicitazione così netta. Ma è bene che sia andata così. Meglio un dibattito franco e costruttivo che la cattiva abitudine di lodare per conformismo le Considerazioni finali e dimenticare tutto con i primi caldi di giugno.
I conflitti dietro le quinte
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