Il Consiglio europeo ha deciso di ampliare l’agenda della Conferenza Intergovernativa per la riforma dei Trattati europei al tema della “cooperazione rinforzata”: si tratta di consentire a una maggioranza di paesi membri che vogliano avanzare più rapidamente nella costruzione europea, di farlo “utilizzando le istituzioni, le procedure e i meccanismi previsti dai Trattati”, cioè all’interno dei meccanismi comunitari, anche senza il consenso unanime di tutti i
membri.
Le ragioni di questa scelta – che conta tra i suoi sostenitori anche Jacques Delors -sono esposte con eloquenza e passione da Tommaso Padoa Schioppa sul Corriere della Sera di lunedì 26 maggio. L’unificazione dell’Europa, egli argomenta, è sempre stata fatta da un’avanguardia; ora bisogna codificare il “diritto all’avanguardia”, perché senza di esso ogni progresso verso l’unione politica rischia di bloccarsi, “quando il numero degli stati membri sarà salito a 20, 25 o 30”; e codificarlo attraverso la generalizzazione del voto a maggioranza, incluse le questioni istituzionali, il fisco e gli affari sociali.
Suona bene, eppure è tutto sbagliato, e io trovo anche pericoloso per il futuro dell’Europa. L’Europa comunitaria è stata concepita e, al principio, sospinta dalla comunità d’intenti di un’avanguardia politica e intellettuale; è nata dal consenso di un gruppo di stati, divenuto col tempo sempre più largo; ma fino al Trattato di Maastricht – che istituì la moneta comune e i “pilastri” intergovernativi della sicurezza esterna ed interna — non aveva mai deviato dal principio dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri dei paesi partecipanti (non è tale l’accordo di Shengen, che nasce come intergovernativo).
La concessione al Regno Unito della facoltà di non partecipare ha inferto una grave ferita alla costruzione istituzionale, sfruttata anche da altri paesi; il fatto che la moneta sia gestita da un’istituzione indipendente dal potere politico ha consentito di limitare i danni, dato che in questa materia gli organi legislativi comuni (Consiglio e Parlamento) non possono legiferare e il potere di iniziativa della Commissione non si applica. La forza di attrazione della moneta comune sta ora riconducendo i reprobi alla casa comune, e la ferita potrebbe rimarginarsi da sola entro due o tre anni.
La creazione di altre iniziative ristrette all’interno dei meccanismi comunitari mette in pericolo l’unitàrietà delle istituzioni comuni. Quale sarebbe l’effetto di avere Consigli dei Ministri ristretti che votano, magari a maggioranza, su questioni di fondo della costruzione comune? E come potrebbe il Parlamento esprimersi su quelle questioni, forse escludendo i parlamentari eletti nei collegi dei paesi che non partecipano all’iniziativa? Che ne sarebbe dell’unicità della rappresentanza politica dei cittadini dell’Unione? Come si farebbe ad evitare l’emergere di diritti diversi cittadini originari di diversi paesi dell’Unione?
Ma soprattutto, quali sono le materie sulle quali si vorrebbe far valere la cooperazione rinforzata? Il fisco, gli affari sociali, la “politica economica comune”? Ovviamente no, perché questa sarebbe la fine del mercato unico europeo: in queste materie si può decidere all’unanimità o a maggioranza, ma le decisioni non possono che valere per tutti. O la politica agricola comune, che molto travaglia i negoziati sull’allargamento: si vuole davvero un corpo di regole diverse per chi è già dentro rispetto a chi sta fuori e si appresta ad entrare, solo perché non si è capaci di smantellare quella che è ormai solo una disastrosa costruzione protezionistica?
Oppure si tratta in senso stretto delle istituzioni comuni: il federalismo e l’unione politica con chi ci sta? Ma è davvero questo l’obiettivo? Perché se così fosse, non si capisce che cosa impedisce ora di aprire la discussione nel merito sulle proposte del ministro degli esteri tedesco Fischer, che delineano proprio un’evoluzione in senso federale delle istituzioni comuni. Chi impedisce di decidere adesso, nella Conferenza Intergovernativa, quei rafforzamenti del Parlamento, della Commissione, quelle estensioni del voto a maggioranza che renderebbero meno acuto il pericolo di paralisi delle decisioni dopo l’allargamento dell’Unione? Chi impedisce di adottare quelle procedure di revisione dei Trattati, proposte dal Comitato Dehaene, che consentirebbero di semplificare le decisioni istituzionali senza rompere l’unità della membership?
La risposta breve è: prima di tutti, è la Francia. La stessa Francia che chiede formazioni ristrette del Consiglio e voti a maggioranza nelle questioni fiscali, è anche il paese che si oppone a ogni ulteriore progresso verso un’Unione federale, il paese che blocca la riforma della politica agricola: il paese che sempre ha concepito l’Europa politica come un concerto degli stati, e che ora propone le formazioni ristrette di stati per salvaguardare la propria capacità di controllo sulle questioni politiche fondamentali dell’Unione. Se la Francia e la Germania fossero concordi sull’obiettivo, l’Unione federale europea sarebbe a portata di mano.
Non c’è bisogno di formazioni ristrette di paesi, non c’è bisogno di direttòri, di distinzioni tra paesi di serie A e di serie B all’interno dell’Unione. La strada federale si può imboccare qui e adesso, se solo si vuole, utilizzando la Conferenza Intergovernativa già convocata. Invece, l’Unione non ha bisogno di ulteriori complicazioni e contorcimenti nei meccanismi istituzionali, già fin troppo complessi perché i cittadini possano comprenderli, e anche per questo in difetto di legittimazione democratica.
Il richiamo al diritto delle avanguardie di avanzare nasconde purtroppo molta confusione nei concetti e negli obiettivi, un certo ammontare di nazionalismo nascosto, e qualche concreto pericolo di danneggiare in modo irreversibile le istituzioni comuni. Romano Prodi farebbe bene a non farsi attirare in questo gioco, e l’Italia sarebbe più al sicuro seguendo la Germania che la Francia.
Fonte: tratto da: Il Sole 24 Ore del 26 giugno 2000