• martedì , 24 Dicembre 2024

Fiat, da risorsa a problema nazionale

Per la seconda volta nel giro di un ventennio, la Fiat è ridiventata un problema del paese anzichè una risorsa.
Accadde a cavallo degli anni settanta ed ottanta, dopo gli anni di piombo ed il terrorismo in fabbrica , ed accade di nuovo oggi, negli anni della globalizzazione industriale e finanziaria e delle sfide industriali planetarie. La differenza sta nel fatto che, allora la crisi era quasi esclusivamente italiana e che, per uscirne, il capitalismo italiano diede il meglio di sé come orgoglio imprenditoriale, rilancio dell’etica efficientista, voglia grintosa di competere e farcela che, all’epoca, avevano il volto di Cesare Romiti. Questa volta, la causa della crisi sta un po’ in tutto il mondo, molto a casa nostra a Torino, ma dal cilindro del capitalismo italiano più che orgoglio compaiono richieste di salvataggio pubblico, sfiducia e una certa rassegnazione a mollare tutto e vendere agli americani della General Motors. Cosa è successo? Ed è davvero tutta a Torino la colpa? Cerchiamo di chiarire subito alcuni aspetti.
La crisi dell’auto non è una questione solo italiana né una questione solo Fiat. L’auto è in crisi in tutto il mondo ed in Europa, se si fa eccezione dell’industria francese e della piccola Bmw tedesca, colpisce senza pietà tutti e quindici i Paesi membri. La controprova? E’ nel verdetto delle Borse che, fiutando in anticipo aria di crisi, in poco più di nove mesi, quest’anno ha condannato tutti indistintamente i titoli dell’auto: – 9,1% per Renault e Honda, – 12,5% Toyota, – 29,3% Peugeot, -36,7% Daimler Chrysler , GM, -39,1% Volkswagen, – 54% Ford e Fiat.
Il secondo aspetto da chiarire è però che la crisi ha colpito tutti ma la Fiat più degli altri costruttori. Le vendite sono calate del 19% nei primi nove mesi di quest’anno e la quota di auto Fiat sul mercato italiano, che alla fine degli anni ottanta era del 50%, è scesa nel 2001 al 34,4% e quest’anno al 32,1%, mentre in Europa in soli 12 mesi è scesa dal 9,9 all’8,4%.
Le ragioni stanno in un duplice declino italiano: imprenditoriale e manageriale. Se, per dirla con il linguaggio Bocconiano che in questi giorni è emerso all’International Colloquium on comparativs perspectives, “l’imprenditore è chi alloca le risorse al massimo livello, chi innova, chi si assume i rischi”, verrebbe da chiedersi se, negli ultimi dieci anni, il capitalismo italiano dell’auto ha messo mano al portafogli tutte le volte che l’innovazione lo richiedeva e si è assunto sempre e tempestivamente tutti i rischi necessari, anche strategici, per dare all’industria dell’auto alleati, partner, strumenti finanziari sufficienti per affrontare la ultrapreannunciata selezione darwiniana. E se, sempre bocconianamente, il manager è “chi possiede una sofisticata conoscenza su come si conduce l’azienda e si riceve la responsabilità di condurla”, verrebbe da chiedersi se, da Ghidella in poi, tutti i manager hanno avuto la “sofisticata conoscenza” per capire che, investendo nella ricerca dalla metà ad un quarto dei concorrenti, l’epilogo non poteva che essere quello segnalato dal Governatore Antonio Fazio: la Fiat salvata tre mesi fa dalle banche ed oggi al cappezzale del Governo.
Ma tant’è. Ora si tratta di agire e chi evangelicamente è senza peccato, dal Fisco ai sindacati, passando per i governi di sinistra dell’ultimo decennio, scagli la prima pietra.
Ora la palla passa al Governo e giustamente il presidente del consiglio si è fattoo carico del problema annunciando che interverrà. Nel linguaggio della politica, quando un governo annuncia un intervento significa che si accinge a spendere denaro pubblico. Il che è giusto se si tratta di dare prospettiva di lavoro ed impedire la galoppante deindustrializzazione italiana. Ma proprio perché ci si accinge a spendere denaro, sarebbe apprezzabile fornire agli italiani alcune certezze: la prima è che il denaro che si deciderà di spendere a sostengo della Fiat sia speso anche dagli azionisti della
Fiat; la seconda è che quel denaro serva a restituire centralità e competitività industriale all’industria italiana dell’auto e non a vendere meglio agli americani della General Motors la Fiat auto risanata. La terza è più strategica e riguarda il destino industriale del Paese.
Non siamo né manichei, né fondamentalisti del capitalismo selvaggio e riteniamo che una delle principali conquiste del Novecento sia stata proprio la presa di coscienza dei limiti del capitalismo, insufficiente a garantire il pieno utilizzo dei fattori produttivi, e dei fallimenti dello statalismo, incapace di creare benessere e democrazia. Ma nella competizione globale, vincono le imprese che, all’interno delle regole della cooperazione internazionale, investono, innovano e “fanno sistema” giocando insieme ai loro governi.
Per non aver fatto questo, l’Italia ha perso negli anni settanta la sfida dell’industria farmaceutica; negli anni ottanta ha perso la chimica, la siderurgia, l’elettronica di consumo e l’informatica; ora sta perdendo i trasporti aerei ed arranca nella bioingegneria, nelle telecomunicazioni . Il risultato è che i commerci internazionali made in Italy declinano inesorabilmente ed ormai sono al 3,7% del totale.
Il ruolo dei governi è quello di creare l’ambiente più favorevole allo sviluppo. Ed allora, se si tratta di resuscitare l’industria italiana dell’auto, perchè la si ritiene strategica per l’impulso di innovazione e di stimolo che può dare all’intera industria italiana, si mettano pure a disposizione denari, incentivi, agevolazioni, ammortizzatori sociali, ma si comunichi anche al paese su quali campi si decide strategicamente di puntare, si concentrino su di essi i pochi denari disponibili e, soprattutto, lo si segali anche al futuro dei nostri giovani. Se poi tutto ciò si chiama politica industriale, bene, allora sia la benvenuta.

Fonte: " Il Giornale " del 20 ottobre 2002

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