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Fiat, Marchionne taglia l’ultimo nodo

La Fiat non è più un’azienda familiare. E’ controllata da una famiglia, gli Agnelli, ma la sua natura, dopo un secolo di vita, sta rapidamente cambiando. Pur essendo una società quotata, la sua identificazione con la famiglia Agnelli è stata totale, e questa identificazione, figlia della storia, si leggeva anche nel suo portafoglio partecipazioni. Ora non più. Nelle prossime settimane sarà venduto il Sestriere, località sciistica inventata dagli Agnelli, il luogo dove l’Avvocato, fino a non moltissimi anni fa, arrivava in elicottero per una paio di discese mattutine prima di andare in Corso Marconi. Era l’ultimo frammento di un impero familiareindustriale, l’ultimo di tanti che in questi anni sono stati ceduti.
Scomparso Gianni Agnelli, scomparso Umberto Agnelli, il legame con la storia, dentro la Fiat, resta più quello dell’azienda che quello della famiglia.
Ma il cambiamento in realtà è ancora più profondo. Si stanno recidendo i legami con il secolo scorso, con un modo di essere dell’Italia e del capitalismo italiano che era diventato il suo limite e che non regge più il passo con i tempi, e del quale la Fiat era uno dei pilastri. La Fiat di Gianni Agnelli insieme alla Mediobanca di Enrico Cuccia. Un primo tentativo era stato fatto, dopo l’uscita di Cesare Romiti, con l’arrivo di Paolo Fresco, ‘l’americano’, manager di lungo corso nella General Electric di Jack Welch. Ma era stato un tentativo a metà, che aveva portato a un raffreddamento dei rapporti con Mediobanca, a contrasti anche, ma all’interno di un sistema che non sentiva ancora, o non voleva sentire, la pressione del mondo aperto, dell’Europa che si avviava alla moneta unica.

Il passaggio vero, chiaro, definitivo, avviene ora, con la guida della Fiat affidata a Sergio Marchionne, scoperto da Umberto Agnelli e chiamato con la missione ‘impossibile’ di uscire dal baratro. Per uscirne Marchionne ha dovuto cambiare la Fiat, portarla nel nuovo secolo, e questo inevitabilmente comporta anche la fine di quel mondo, l’abbandono di quel modello.
Il segnale? L’uscita della Fiat dal capitale di Mediobanca. Non è ancora successo ma è sul tavolo, una opzione possibile, anzi probabile, apparentemente normale e invece rivoluzionaria. Non per le quantità, meno del 2 per cento, per un valore di poco più di 200 milioni di euro, ma per il modo in cui avviene e per il significato.
La Fiat vuole ricomprare la quota del capitale della Ferrari che aveva ceduto a Mediobanca nei momenti più difficili. La vuole ricomprare perché la ritiene un pezzo importante della sua attività, che è costruire auto, camion, autobus e trattori, e poiché non vuole correre il rischio di veder peggiorare il suo rating, è orientata a recuperare le risorse necessarie vendendo alcune partecipazioni non considerate strategiche per il suo ‘core business’. Tra le partecipazioni cedibili c’è Mediobanca.

Semplice, chiaro. Ma il segnale è profondo: per la Fiat del 2006 è più importante il giudizio delle agenzie di rating internazionali che essere seduta nel patto di sindacato di Piazzetta Cuccia. Sembra ovvio, ma fino a qualche tempo non lo era affatto, perché era Mediobanca che regolava il flusso delle risorse, ed esserci in quel crocevia era più importante di qualunque altra cosa, agenzie di rating comprese. Era così perché il mercato dei capitali era domestico, chiuso o semichiuso, e per avere i flussi necessari era determinante contare, essere nelle stanze dove c’erano i bottoni. In Mediobanca appunto, e avere potere ed esercitarlo dovunque fosse possibile e necessario.
Mediobanca e la Fiat erano al centro di quel sistema di potere, la più grande azienda manifatturiera privata e la sola vera banca d’affari. D’altronde come è possibile raccontare gli ultimi quarant’anni del capitalismo italiano nel ventesimo secolo, senza partire dal rapporto tra Gianni Agnelli ed Enrico Cuccia? Da quale altro binomio si possono tirare i fili?

Ora tutto è cambiato. Il mercato dei capitali è aperto, apertissimo, gli investitori che volessero puntare sull’auto ogni mattina possono scegliere tra Fiat, Gm, Toyota, e tutti gli altri. E il costo del denaro sul mercato internazionale dipende assai più dal rating di Moody’s o Standard&Poor che dai legami con un banchiere amico.

La Fiat, con la sua scelta di mettere avanti il rating alla partecipazione in Mediobanca ci dice che il traghettamento è finito, annuncia di essere ormai sull’altra sponda, di essere uscita dal ventesimo secolo e di voler giocare le sue carte come si fa nel ventunesimo.
Anche per il sistema nel suo complesso è un passaggio, poiché quello che fa la Fiat, viste le sue dimensioni e il suo ruolo, non può essere indifferente per tutti gli altri. E’ l’inizio dell’unbundling, dello scioglimento della matassa, di quel sistema di relazioni e di incroci per cui io appoggio te e tu appoggi me e tutti e due appoggiamo lui che a sua volta ci appoggia. Quel gran groviglio che aveva inventato Cuccia per tenere in piedi un capitalismo debole, costruito non sul mercato ma sui patti di sindacato e sugli incroci azionari, di cui lui, Cuccia, è stato fino all’ultimo il magistrale regista, che così è riuscito a tenere in piedi il capitalismo italiano e nello stesso tempo gli ha impedito di crescere e camminare sulle sue gambe.

Ora Cuccia non c’è più, ma soprattutto è cambiata la legge non scritta che regola il mercato globalizzato, nel quale cammina chi ha le gambe per farlo, e va avanti chi invece di camminare riesce a correre.

Cinque anni fa Abertis era un nano e Autostrade un gigante, ora la prima sta per ingoiarsi la seconda, la Fiat stava per fallire e ora è risorta, cinque anni fa chi aveva sentito parlare di Ferrovial che due settimane fa ha conquistato tutti gli aeroporti di Londra e qualcun altro in giro per il mondo, o di Mittal e di Severstal che si stanno disputando il controllo del gigante francese dell’acciaio Arcelor?

Sono cambiati i modi e sono cambiati i tempi, un lustro basta e avanza per morire, risorgere o diventare un gigante, e la pressione dell’Europa unita si è fatta enorme, si stanno ridisegnando a gran velocità il mercato europeo dell’energia, delle banche e delle assicurazioni, delle infrastrutture, delle borse persino, e su chi ha la massa vince chi ha il dinamismo: Abertis docet. In un mondo così i pesi al bilancino non funzionano più, fanno perdere tempo e occasioni.
Lo scioglimento dei nodi si è fatto urgente, il riassetto del sistema bancario italiano, così come di tutto il resto, non può più seguire i tempi lunghi dei suoi patti di sindacato ingessati, dei suoi azionisti gelosi e dei suoi manager impauriti.

In tutto questo Mediobanca che fa? Che cosa è oggi? Solo due anni fa si parlava di una riduzione della quota delle banche per aumentare il peso degli azionisti industriali. Ora uscirà Fiat, ha annunciato l’intenzione di uscire anche PirelliTelecom, è evidente che per i grandi soci industriali esserci conta meno che in passato, così come è evidente, per converso, che a contare in Piazzetta Cuccia sono ormai solo i soci francesi e le due banche azioniste, Unicredito e Capitalia. Mediobanca fa la banca d’affari, e la fa bene, ma senza le Generali in portafoglio, sarebbe ormai una normale banca d’affari, una tra le tante. Ma quel portafoglio è la sua fortuna e la sua gabbia, oltre ad essere la gabbia delle Generali. Axa cinque anni fa valeva un terzo di quello che vale oggi, le Generali invece non decollano, e per quanto grandi non lo sono abbastanza per essere al sicuro.
Se il dinamismo vince sulla massa, anche lì sarà il caso che si diano una mossa, perché il tempo stringe e gli altri non stanno ad aspettare. Dobbiamo attenderci dodici mesi di fuoco, che cambieranno la faccia a molti settori di questo vecchio continente: la partita è cominciata, dobbiamo sbrigarci a decidere se la vogliamo giocare o subire.

Fonte: La Repubblica Affari & Finanza del 12 giugno 2006

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