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La lezione di Baffi e le partecipazioni statali

Avessimo dato retta a Paolo Baffi, il ministero delle Parteci¬pazioni statali non sarebbe mai nato. Siamo nell’Italia dei primi anni Cinquanta: l’iri è ri¬diventato operativo da pochi anni, in Parlamento si discute della riforma del suo statuto e sta per nascere l’Eni.

Quello che sarebbe diventato più di venti anni dopo il governatore della Ban¬ca d’Italia si batte, assieme a pochi altri, per evitare la tracimazione dello Stato nell’economia, si oppone alla creazione di un ministero ad hoc e al rafforzamento del ruolo dell’Iri. A riportarci a quella discussione e a quella coraggio¬sa presa di posizione è stato ieri l’attuale governatore Ma¬rio Draghi, che parlando al¬la Bocconi in memoria di Baffi ha voluto ricordare co¬me il suo predecessore soste¬nesse, già nel 1953 con gran¬de lungimiranza, che invece di ampliare la sfera pubblica dell’economia «si doveva puntare soprattutto su una buona regolazione del mercato».

La sottolineatura di Draghi non è cer¬to casuale. Sono passati più di 50 anni dalla nascita delle Partecipazioni statali, di mezzo c’è stato anche grazie pro¬prio a lui…..- un robusto processo di privatizzazione dell’industria pubblica, eppu¬re oggi mutatis mutandis l’Italia continua a discutere se sia giusto o no rilanciare l’intervento dello Stato, che in epoca postmoderna non dovrebbe più produrre le Alfa Romeo e i panettoni Alemagna ma controllare reti di comunicazione, aero¬porti, autostrade e via discorrendo. Un neobeneducismo che trova molti sosteni¬tori nella maggioranza che governa il Pa¬ese, decisamente critici nei confronti de¬gli imprenditori privati e desiderosi il ria¬prire il cantiere della politica industriale.

A Milano ieri il governatore non si è limitato però a punzecchiare i neostatali¬sti, si è proposto un compito decisamen¬te più ambizioso. Far ripartire un dibatti¬to attorno al liberismo che ha einaudianamente definito «un modo di ragionare più che una dottrina economica». C’è as¬sai poco dell’esperienza di M argaret Thatcher nelle parole di Draghi e nel Baffi ricordato ieri. Il liberismo che piace ai due governatori, quello di ieri e quello di oggi, passa attraverso tante «battaglie della persuasio¬ne» che devono motivare l’opinione pubblica e le forze politiche. Lo potremmo chiamare un liberismo delle opportunità che si candida ad essere lo strumento più efficace per ridurre le disuguaglianze e non certo ad approfondirle.

Il Baffi ricordato da Draghi è dunque «un traghettatore di idee», il cui patrimonio culturale conteneva più fermenti di modernità di quanti ve ne fossero nella cultura politi ca ed economica del momento. Accenti analoghi a quelli di ieri il governatore li aveva fomiti in almeno un altro paio di occasioni, parlando di Einaudi a Londra nell’ottobre scorso e rilanciando le politi¬che meritocratiche nella scuola a Roma in novembre. Si può pensare dunque che la Banca d’Italia, istituzione che ha vissu¬to i suoi alti e i suoi bassi, oggi si ponga l’obiettivo di tenere viva in Italia una tra¬dizione culturale che rischia invece di perdersi tanto a de¬stra quanto a sinistra.

Anche negli anni di Baffi la cultura economica preva¬lente nel mondo politico non era orientata al mercato. An¬zi in Italia finì per prevalere una vulgata keynesiana che Draghi ieri ha etichettato co¬me «più statalista rispetto a quella dominante in ambito internazionale». Politici e ac¬cademici dell’epoca pensavano e sperava¬no che solo attraverso un forte interventi¬smo dello Stato nelle attività economiche fosse possibile continuare la straordi¬naria crescita conosciuta dal Paese negli anni Cinquanta e Sessanta. L’interesse per sostenere a ogni costo l’economia rea¬le portava a sottovalutare il ruolo della moneta e soprattutto a non interrogarsi a sufficienza su cause ed effetti dell’infla¬zione.

Gli avvenimenti successivi ma anche gli sviluppi della teoria economica diede¬ro ragione a Baffi e i successi che l’Italia ha riportato negli anni Ottanta e Novan¬ta in tema di ritrovata stabili¬tà dei prezzi si devono anche a lui. Non è un caso quindi che Mario Monti volendo in¬titolare il Centro di econo¬mia monetaria e finanziaria della Bocconi a un governa¬tore abbia scelto nel 1984 proprio Baffi e non altri. Il rigore dei comportamenti, ha insistito ieri Draghi, nel medio periodo paga e ap¬plaudendo la coerenza del vecchio governatore il nuovo parla impli¬citamente alla coalizione che oggi è al potere affinchè non rinunci a mettere sotto controllo la spesa pubblica ed eviti di prendere provvedimenti dal sapore elet¬toralistico. Ma è forse nel verbo «persua¬dere» il vero messaggio contenuto nel discorso milanese del governatore. Una politica economica per esser forte deve essere condivisa dalla società, non c’è e non ci sarà una modernizzazione dall’alto. Il politico che non ama le domande che vengono dal basso è destinato a perdere.

P.S. Quanto fatichi ad affermarsi un orientamento pro mercato dentro le for¬ze politiche lo dimostrano le vicende di ieri alla Camera. Il centrodestra è ricorso al filibustering contro il provvedimento sulle liberalizzazioni. Ma non doveva nascere una Bicamerale per la concorrenza?

Fonte: Il Corriere della Sera del marzo 2007

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