• lunedì , 25 Novembre 2024

Export ed energia le vie della crescita

La manovra è dura, anche se abbiamo vissuto di peggio. Ed è ampiamente criticabile perché ha poco di strutturale e perché dentro non c’è molta politica, non ci sono cioè segnali che ci indichino verso quale struttura economica il paese deve muovere se vogliamo tirarlo fuori davvero da questa ormai ultradecennale condanna a un debito troppo alto ed a una crescita troppo bassa. Si poteva fare di meglio, se solo si fosse riconosciuto per tempo che i conti andavano rivisti, invece di negare fino all’ultimo l’evidenza e ridursi ad essere schiavi della fretta e dei tempi dettati dai mercati. E se non ci fossero state delle barriere ideologiche (e demagogiche) a bloccare quei passaggi che davvero potrebbero modificare il panorama della nostra economia e della nostra società. Sarebbe stato opportuno per esempio utilizzare questa occasione per correggere un’anomalia che non ci possiamo davvero più permettere, ovvero che il lavoro e l’impresa, anche alle aliquote minime, siano tassati più della rendita. Il conservatore Cameron nel suo piano per rimettere ordine nelle disastrate finanze pubbliche inglesi ha annunciato che uno dei provvedimenti sarebbe stato l’aumento della tassazione sui capital gain, ma a Silvio Berlusconi, ossessionato dal suo slogan “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” (come se questa manovra non le mettesse!), e a Giulio Tremonti non è venuto in mente. Portare la tassazione su tutte le rendite finanziarie e patrimoniali al livello dell’aliquota minima applicata sui redditi, utilizzando le risorse per ridurre quest’ultima e la tassazione sulle imprese, avrebbe dato a questa manovra almeno un vago tocco di equità, corretto una distorsione del nostro sistema fiscale e dato anche un po’ di ossigeno ai consumi e alla crescita. Ma l’occasione è andata perduta e il riequilibrio tra la tassazione del lavoro e dell’impresa e quella della rendita è rinviato sine die. Pazienza.
Quello che ci resta di questa manovra sono due cose: la speranza che serva a placare almeno un po’ i mercati e la certezza che di qui ai prossimi anni di soldi in Italia ne circoleranno molto meno. Il che vuol dire meno consumi e meno investimenti, ovvero l’addensarsi del rischio che questa fragilissima ripresa possa essere uccisa ancora nella culla, come è già avvenuto peraltro negli Stati Uniti a metà degli anni ’30 e in Giappone a metà degli anni ’90 con la conseguenza di lunghi periodi di stagnazione.
Ci auguriamo che non sia così, anche se il fatto che manovre più o meno massicce siano in corso o in programma in tutti i paesi industrializzati rende concreto il timore che invece accada e che magari alla stagnazione si aggiunga anche quell’altra malattia dell’economia che ancora nessuno ha imparato a curare e che si chiama deflazione.
Possiamo temere e sperare, ma soprattutto qualcosa dobbiamo fare per cercare di evitarlo. Cosa? Le ricette sono poche e dovrebbero avere come primo obiettivo quello di fare in modo che nel paese circolino più soldi di quanto ad oggi non si prospetti. I modi sono solo due: export e risparmio energetico.
I mercati nel loro forsennato attacco contro l’Europa hanno lasciato sul campo morti e feriti ma almeno ci hanno portato anche un non piccolo vantaggio, la perdita di valore dell’euro nei confronti del dollaro e di tutte le altre valute che al dollaro sono legate. E’ una fragile scialuppa di salvataggio, sulla quale tutti i paesi di eurolandia, alle prese come noi con tagli ai bilanci pubblici cercheranno di salire. Ebbene, noi dobbiamo fare di tutto per conquistarci su di essa il nostro spazio. Siamo tra i paesi dell’area uno di quelli che ha ancora una forte componente manifatturiera, il che vuol dire che produciamo e abbiamo prodotti da vendere. Dobbiamo allora non perdere tempo e animarci di determinazione e aggressività su tutti i mercati. Dobbiamo fare in questo momento dell’export la priorità assoluta della politica e del sistema bancario. I pochi euro che si possono tirare fuori dalle casse dello stato, della Cassa Depositi e Prestiti, della Sace, del Tesoro devono essere indirizzati a questo scopo. I ministeri degli Esteri e dello Sviluppo Economico preparino a gran velocità un piano di guerra, mettano in programma missioni, progetti, sostegni di qualsiasi tipo. E le banche creino delle task force al loro interno per accelerare i tempi e semplificare le procedure per far accedere il più rapidamente possibile le imprese ai finanziamenti all’esportazione.
I soldi che in Italia non saranno più in circolazione perché dalle casse pubbliche non potranno uscire dovremo farli arrivare da fuori, vendendo prodotti e servizi e attirando turisti.
La seconda cosa che si può fare, anzi che si deve fare, è impegnarsi a fondo per risparmiare energia. La bolletta energetica del paese, ovvero quanto spenderemo per acquistare petrolio, gas ed elettricità dall’estero, dovrebbe essere nel 2010 tra 45 e 50 miliardi di euro. Tutti, cittadini, imprese e istituzioni devono essere consapevoli del fatto che ogni euro di energia risparmiato sarà un euro che invece di uscire fuori dai confini rimarrà all’interno e potrà essere destinato a consumi e investimenti. Siamo in emergenza? Dobbiamo tagliare? E allora impegniamoci tutti a tagliare i nostri consumi di benzina, di elettricità, di riscaldamento e condizionamento. Se riducessimo solo del 5 per cento quella bolletta sarebbero 2 miliardi e mezzo di euro a disposizione per comprare e per investire,per dare cioè ossigeno alla crescita.
E poi c’è una terza cosa che dobbiamo fare. E’ un ritornello che ci ripetiamo da molto tempo, ma ora è davvero il momento di passare ai fatti: dobbiamo valorizzare la ricerca. Se è la crescita la strada per uscire dall’impasse allora, lo sappiamo, l’innovazione è fondamentale. Proprio perché siamo in difficoltà dobbiamo puntare su questo tutte le carte possibili, è la nostra sola assicurazione su un futuro nel quale saremo più vecchi (la demografia peserà, sui bilanci e non solo) e nel quale dovremo fare i conti ancora più che adesso sulla competizione dei paesi che ci ostiniamo a chiamare emergenti. Ci sono segnali importanti. In Italia è un fiorire di start up, di nuove imprese tecnologiche nei settori più avanzati, dobbiamo assolutamente rafforzarle e costruire intorno ad esse un sistema istituzionale e finanziario che le aiuti a crescere e ad affermarsi sui mercati mondiali. Il rischio, se non lo facciamo, è che arrivino presto a comprarsele colossi tedeschi e americani, oppure perché no cinesi. E allora avremo venduto intelligenza ma non arricchito il paese.
Tre cose ovvie: puntare sull’export, risparmiare energia, impegnarci nella ricerca, che non richiedono neanche grandi capitali. Sempre, ma ancora di più quando si è in difficoltà, è fondamentale darsi delle priorità (che siano nell’interesse del paese e non solo di uno o di pochi) e perseguirle con ostinazione. Diamocele, se c’è un momento nel quale non possiamo permetterci di non farlo è questo.

Fonte: Affari e Finanza 31 maggio 2010

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