Che cosa hanno in comune le fondazioni bancarie e le frequenze televisive? A entrambe si guarda per reperire risorse per progetti che il bilancio dello stato non riesce a finanziare: al primo posto dell’elenco, accanto alla sempreverde rete a banda larga, si è da poco insediata la riforma Gelmini. Si tratta di risorse effettivamente disponibili?
Nel caso delle fondazioni, tre lustri dopo la legge Ciampi-Pinza, si dovrebbe sapere che farci entrare progetti di questo genere sarebbe una forzatura di quanto statuti e testi di legge prescrivono per investimenti dei patrimoni e destinazione dei redditi. Nel caso dei proventi dalla vendita delle frequenze liberate dalla transizione al digitale, varrebbe la pena verificare se quel «un bel po’ di miliardi» di cui parla Pier Luigi Bersani (sul Corriere del 14 ottobre) – ed Eugenio Scalfari (sulla Repubblica del 17) precisa essere tre – sono effettivamente disponibili.
Se si pensa alle frequenze come a una strada, e ai canali televisivi come a file di macchine, la tecnologia digitale consente di far passare sei (ma tra poco anche 12) file dove con l’analogica ne passava una. La nuova capacità che così emerge è il “dividendo digitale”, e il problema che sorge è chi deve incassarlo. Quanto all’uso, gli interessati al dividendo sono le televisioni nazionali e i fornitori di servizi di comunicazioni mobili, le prime per poter trasmettere canali tematici a pagamento, l’alta definizione, domani il 3D (il “dividendo interno”); i secondi per aumentare la copertura e la capacità trasmissiva, soprattutto nelle aree urbane (“dividendo esterno”). Quanto al valore economico: chi è il proprietario dell’azione a cui è attaccato il dividendo, ossia il diritto di usare la frequenza liberata?
Per il dividendo interno (al sistema televisivo), la legge Gasparri consente alle televisioni nazionali (Rai, Mediaset, La7, l’Espresso) di seguire l’evoluzione tecnologica del loro business, a condizione che si paghino le relative infrastrutture e mettano a disposizione di nuovi entranti il 40% della nuova capacità trasmissiva. Per rispondere ai rilievi di Bruxelles, che in tal modo si trasferirebbe nel mondo del digitale l’oligopolio dell’analogico, il governo ha “racimolato” cinque blocchi di frequenze che assegnerà con un beauty contest, al quale è stato ammesso a partecipare anche Sky.
Le frequenze per il dividendo esterno, cioè destinato ai servizi mobili, possono venire quindi solo dalle televisioni locali: anche i loro canali con il digitale si moltiplicano. La legge Maccanico del 1997, che destina alle locali il 30% delle frequenze, ha messo il suggello sulla proliferazione di emittenti, per cui l’Italia ha un record mondiale. Dalla razionalizzazione di questa disordinata vegetazione possono venire le risorse per i servizi mobili e le speranze di incasso del dividendo economico.
Accanto a poche realtà di vere televisioni regionali che già si aggregano e crescono col digitale, c’è una pletora di mini emittenti che vivacchiano tra programmi scadenti e ricavi evanescenti, sovente trasmettendo il solo monoscopio, e mai potrebbero affrontare i costi per il digitale. Tuttavia, dal punto di vista giuridico, in che cosa sono diverse dalle televisioni nazionali? Lo spettro non è un bene, come non lo è il campo gravitazionale, le frequenze sono solo una modalità di trasmissione: ma il titolo di proprietà su un terreno dipende forse da che cosa ci si è costruito sopra,una stamberga o un grattacielo?
Esiste un mercato secondario delle frequenze, legittimato fin dal 1998 (governo Prodi): se la possibilità di usare quella frequenza in quell’area consente di estrarre un valore, perché non deve andare a beneficio di chi la usa da tempo e poco o tanto qualcosa ci ha investito? E quindi certo che, ove il governo, per potere vendere quelle frequenze ne interdicesse l’uso a chi oggi, bene o male, le usa per il proprio business, andrebbe incontro a ricorsi ad ogni Tar d’Italia. Anche se alla fine la spuntasse, passerebbero anni: e questo basterebbe a escludere che da lì si possano ricavare risorse per provvedimenti urgenti.
Comunque, sarebbe poi la linea giusta da seguire? Nell’allocare in modo efficiente risorse scarse, niente batte il mercato, in questo caso il mercato delle frequenze, in cui si incontra liberamente chi vuole comperare e chi vuole vendere. Invece nell’asta l’intervento pianificatorio del decisore pubblico definisce l’oggetto (i pacchetti di frequenze) e sceglie le modalità di assegnazione. L’esperienza non è entusiasmante: l’asta del 2007 per il Wi-max ha reso poco (circa 130 milioni di euro), quella del 2000 per l’Umts sotto il governo Amato rese molto ma sulle sue conseguenze per i consumatori i giudizi sono divisi.
Ci sono diecine di tipi di aste, ci sono specialisti che le progettano in funzione degli obiettivi che ci si propone: sarebbe un puro caso se un’asta progettata per massimizzare i ricavi del Tesoro producesse anche la massima efficienza per operatori e utenti. È vero che è necessario un piano che razionalizzi la distribuzione e l’uso delle frequenze, per ridurre i costi di transazione: ma a questo possono provvedere i fornitori di servizi radiomobile commissionandolo a un ente tecnico. Non è che si giustifica un’asta con la necessità di un piano, l’ottimizzazione della copertura territoriale è cosa del tutto indipendente dai meccanismi con cui avviene il passaggio di proprietà: è essenziale tenerli distinti.
Lo stato ambiguo dei diritti di proprietà delle “frequenze” è un’eredità del cosiddetto far west televisivo. Bene o male che lo si giudichi, è la nostra storia, diversa da quella degli altri paesi. La possibilità che oggi ci si offre di riassegnarle con metodi di mercato, va considerata come un’occasione: non sprechiamola.
Gare su frequenze di mercato
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