Durante tutta la scorsa settimana si è parlato dellintervista di Sergio Marchionne alla rubrica televisiva “Che tempo che fa”. Il linguaggio spiccio dellad amerikano ha sollevato un vespaio di polemiche soprattutto tra le forze della sinistra e nei sindacati, tutti uniti allinsegna di un patriottismo nazionale che viene solitamente negato quando si tratta di giudicare lazione del governo.
Gli esponenti del Pd e della Cgil sono sempre i primi a denunciare le tante disgrazie di questo paese e della sua struttura produttiva, ma se la sono presa quando le medesime affermazioni magari da un altro angolo di visuale le ha fatte un manager come Marchionne. Si è scomodato persino il presidente Fini, il quale ha sostenuto che a parlare non è stato un italiano ma un canadese, dimenticando però di aggiungere che nessun manager canadese assennato si sarebbe preso la briga ed avrebbe corso il rischio di investire in unarea tanto carica di criticità come Pomigliano dArco.
Eppure, venerdì scorso, su La Repubblica un quotidiano attento alle posizioni della Cgil e non ostile a quelle della Fiom abbiamo letto un articolo di Tito Boeri (un economista non amico dellattuale governo) molto interessante. Sotto il titolo “La Fiat alla brasiliana”, Boeri traccia un confronto tra la produttività (che non dipende mai dal solo impegno dei lavoratori, ancorchè tale impegno non sia neppure indifferente del tutto) dei diversi stabilimenti Fiat dislocati in Brasile e in Italia. Scopriamo così che a Betim, in Brasile, si producono circa 78 auto per dipendente contro le 53 di Melfi, le 37 di Termini Imerese, le 30 di Mirafiori, le 24 di Cassino e le 7 di Pomigliano. Certo aggiunge Boeri i modelli prodotti in Italia sono spesso di gamma più alta, ma da notare che in Brasile il numero di auto per addetto è raddoppiato in dieci anni proprio mentre si passava a modelli di qualità superiore. Seguono poi altri confronti, dai quali si chiarisce che, se alcune condizioni in Brasile sono più convenienti, non è così per le retribuzioni, i cui importi a parità di potere dacquisto al di qua e al di là dellOceano – sembrano abbastanza allineati.
Noi pensiamo che Marchionne abbia ragione. Ma lasprezza di toni usati denota non solo un tratto del carattere, ma anche una condizione soggettiva dellad del gruppo. E evidente il suo risentimento. Ne ha ben motivo, vista come è stata trattata la disponibilità ad investire in Italia e a fare del progetto riguardante gli stabilimenti del nostro paese (con la esclusione di Termini Imerese) il caposaldo di una visione di spessore e dimensioni globali.
Ma cè di più del disincanto di un manager che si sente straniero in patria. Marchionne ha capito di essere incastrato: di non poter andarsene per tanti motivi dallItalia, ma di non potervi trovare mai le condizioni che vorrebbe per restare. Non potrà mai essere, infatti, un imprenditore audace e determinato a rovesciare un certo andazzo consociativo nel campo delle relazioni industriali. Da noi sono ammessi degli strappi purché ci si affretti a ricucire. Basti osservare come la Confindustria si sia precipitata ad associare anche la Cgil ad un singolare tavolo, sedute intorno al quale le c.d. parti sociali compilano una lista di richieste da presentare al governo, senza preoccuparsi minimamente di indicare che cosa loro intendono fare nellambito delle materie di diretta competenza.
E un confronto, quello aperto, che si avvia ad instradarsi sullo stesso binario morto su cui finì il Patto di Natale del 1998, quando i sindacati vollero regalare al governo DAlema un monumento di chiacchiere, peraltro gradito a tal punto dal premier che volle sottoporlo ad un voto del Parlamento.
Marchionne in Italia non troverà mai le condizioni che cerca per restare
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