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Padova, Carpi: le nuove Prato. Bar e borse, piccoli cinesi crescono

Le maggiori concentrazioni nei distretti manifatturieri emiliani e veneti.Non è difficile incontrare chi si lascia scappare che «qui da noi ormai è una nuova Prato». Artigiani e commercianti delle province emiliane e venete sono sul chi vive. Sentono odore di invasione cinese e non ci stanno. I dati, che dovrebbero essere oggettivi, non confermano le loro sensazioni ma neppure le smentiscono. Perché se è vero che nel manifatturiero e nei servizi la presenza di operatori cinesi nelle regioni padane è in costante aumento, fortunatamente le dimensioni (e i problemi) di Prato per ora restano lontani. Campanello d’ allarme – Secondo le ultime rilevazioni Unioncamere (terzo trimestre 2010) le manifatture di proprietà cinese sono circa 750 a Reggio Emilia, 585 a Padova, 560 a Modena. E ancora, ben 502 nella piccola Mantova e 437 nell’ altrettanto piccola Rovigo. I numeri di Prato (3.493) e anche di Firenze (2.347) non sono dunque paragonabili ma non per questo commercianti e artigiani veneto-emiliani che suonano l’ allarme hanno torto. Anche perché i dati parlano di ditte individuali che agiscono alla luce del sole e sono registrate nelle statistiche ufficiali, nessuno può formulare nemmeno una stima su quanti siano invece i laboratori clandestini. Di sicuro nelle province attorno al Po o anche in Lombardia i ritrovamenti da parte delle forze dell’ ordine di «fabbriche fantasma» non fanno più notizia. Finiscono nelle brevi. E nei mesi scorsi la Confartigianato di Treviso per richiamare l’ attenzione ha organizzato un incontro pubblico con la Guardia di finanza. Obiettivo: fare il punto sulla strategia di contenimento delle illegalità nella produzione di abbigliamento, scarpe e divani. In Brianza poi, la capitale del mobile made in Italy, a fine settembre si è verificata a Muggiò l’ esplosione di un laboratorio cinese. Avanzata silenziosa – L’ avanzata asiatica nel manifatturiero padano è lenta e silenziosa. Fanno molto più scalpore le acquisizioni di bar e osterie (alcuni di nome) comprati con trattative lampo e non è un caso che Marco Paolini abbia iniziato a girare un film sui rapporti tra cinesi e veneti ambientato in un’ osteria venduta. Sono passati di mano il bar Franchin di Rovigo, il ristorante Dai Nodari di Vicenza, il bar Cavour di Reggio Emilia e il bar Pilar di piazza dei Signori a Padova. Sempre nella città del Santo altri esercizi nelle vicinanze del centro storico sono stati acquistati in contanti per 6-700 mila euro e, dopo un periodo di gestione diretta, i cinesi hanno assunto camerieri e conduttori italiani per evitare di perdere clienti. Secondo Ferdinando Zilio, della Confcommercio di Padova, in tutto il Veneto saranno 2 mila i bar, ristoranti e osterie passati di mano. La compravendita è molto meno frequente nell’ industria. La tendenza degli operatori cinesi in questo caso è quella di articolare la loro presenza lungo l’ intera filiera, dal capannone o sottoscala che produce calze e vestiti fino alla bancarella che li vende nei mercati di paese. Oppure di aprire in posizioni strategiche dei Centri Ingrosso, come nel caso di Padova, dove c’ è persino una gioielleria e si può comprare di tutto, dalla frutta e verdura all’ orsetto di peluche. Il guaio è che molti di quei prodotti, provenienti nelle fabbriche tutte intorno, portano l’ etichetta made in Italy e vengono venduti in gran quantità a sloveni e austriaci. «Lì dentro non si sa nemmeno cosa sia una fattura e le regole, tutte le regole, vengono continuamente calpestate. Purtroppo in città c’ è una sottovalutazione di quanto sta avvenendo» tuona Zilio. «Devo dire che i numeri dell’ Unioncamere riferiti a Mantova sono sorprendenti, questa penetrazione nel manifatturiero ancora sfugge ai nostri occhi» ammette Massimo Salvarani, direttore della Cna locale. È vero che anche nel Mantovano una fabbrichetta clandestina al mese salta fuori e la scena è sempre la stessa: un grande locale dove si cuce, si mangia e si dorme. Le aree a maggiore concentrazione di ditte cinesi sono segnalate attorno al distretto della calza di Castelgoffredo o nella maglieria vicino ai comuni di Poggio Rusco e Quistello. Non è chiaro quanto e come i cinesi lavorino per grandi aziende italiane e se abbiano sostituito o meno i vecchi contoterzisti della zona. Se è così, comunque, è successo tutto nel silenzio. Giorno dopo giorno. Anche a Rovigo è l’ abbigliamento il cuore del nuovo manifatturiero cinese. Come a Mantova non si tratta però di un insediamento diffuso, non ci sono Chinatown o grandi centri di smistamento ma un lento ingresso nella subfornitura. Nella provincia di Modena è il distretto di Carpi a catalizzare l’ attenzione delle nuove ditte cinesi, quelle regolari e quello no. Qui la Cna locale si azzarda a stimare che a fronte di un’ azienda emersa ce ne siano almeno quattro sommerse. Per avere dati precisi, suggeriscono, forse occorrerebbe analizzare i consumi notturni di energia elettrica visto che le manifatture fantasma lavorano anche quando gli altri dormono. Modena però offre molte altre occasioni e così ditte cinesi sono presenti nella ceramica e addirittura nel biomedicale. Aveva fatto scalpore qualche settimana fa la presenza a una fiera specializzata di un’ impresa cinese della meccanica per ceramiche con tanto di brand «Modena Machinery». A Reggio Emilia, città multietnica ormai per eccellenza, attorno alla stazione centrale una piccola Chinatown esiste con tanto di bar italiani conquistati, mentre gli insediamenti nel manifatturiero sono più nella parte a sud della provincia attorno ai comuni di Correggio, Brescello, Ca’ del Bosco. I laboratori spesso sono ospitati in case coloniche e anche in questo caso è il distretto della maglieria di Carpi a esercitare attrazione. Le reazioni – In prima fila a denunciare i rischi dell’ invasione cinese sono le organizzazioni dei Piccoli. A Firenze lo scorso anno è stata la Cna a mobilitare i propri artigiani davanti al rischio che la pelletteria locale passasse armi e bagagli sotto i cinesi. L’ ufficio studi nazionale della Confartigianato ha elaborato un’ analisi sulla presenza in Italia, sulle rimesse di denaro in Cina e sulle caratteristiche socioculturali delle loro comunità. Risultato: ogni cinese in Italia ne mantiene 4 in patria e nonostante la Grande crisi l’ attività di money transfer nel 2009 continuava ad aumentare a tassi superiori al 20% mentre quella degli immigrati di altri Paesi faceva segnare per la prima volta una contrazione. Le comunità cinesi sono anche quelle che meno utilizzano servizi pubblici e privati per l’ inserimento nel mercato del lavoro, non sono minimamente interessate al riconoscimento del titolo di studio conseguito in patria e sono anche le meno portate a utilizzare l’ italiano sul luogo di lavoro. Finora allarmi e denunce sono rimaste nell’ ambito associativo e non si segnalano episodi di intolleranza. Qualche tempo fa aveva però colpito l’ affermazione del governatore veneto Luca Zaia, «in Veneto non permetterò che nascano Chinatown», e sempre nel Nordest la Lega è stata molto critica verso l’ apertura nei dintorni di Manzano (distretto della sedia) di un centro ingrosso cinese. Va in controtendenza la Caritas che polemizza con chi parla di pericolo giallo e concorrenza sleale. Critica esplicitamente Roberto Saviano per quelle che giudica esagerazioni contenute in Gomorra, sostiene che la permanenza dei cinesi in Italia è a tempo determinato e di conseguenza molti di loro non imparano la lingua di un Paese nel quale non resteranno. Analizza, infine, il senso di timore degli italiani verso i progressi economici cinesi in un momento di recessione in Italia e arriva a parlare di «un crescendo di notizie diffamatorie verso la comunità cinese che si traducono in tensione sociale e anche in pesanti atti di razzismo». Legalità – È normale che ci siano punti di vista diversi. E forse non ha nemmeno senso dividersi tra chi pronostica “nuove Prato” e chi invita gli italiani a lavorare per l’ integrazione. Ivan Malavasi, presidente della Cna e imprenditore del Reggiano, non nasconde le preoccupazione dei suoi associati. «Ho l’ impressione che il patrimonio di competenze che sta passando di mano noi non lo ricomporremo più. Per certi versi i cinesi ci sostituiscono e noi siamo portati a mollare». Che fare, dunque, per non vivere nell’ incubo dell’ invasione gialla? «Dobbiamo batterci per un modello economico di assoluta trasparenza e quindi massimo sostegno a tutte le iniziative per il ripristino della legalità. Non ci possiamo permettere asimmetrie». Sulla stessa lunghezza è Raffaello Vignali, deputato del Pdl e consigliere per le Pmi del ministro Paolo Romani. «Non dobbiamo far passare l’ idea che a da noi, a Prato o altrove, si possa far tutto. Dobbiamo quindi chiedere di intensificare i controlli a tutti i livelli. Perché francamente non è possibile che a Roma in via Veneto, proprio sotto il ministero dello Sviluppo economico, a una certa ora della sera i marciapiedi diventino un unico tappeto di merci contraffatte». E in questo caso la beffa precede il danno.

Fonte: Corriere della Sera del 23 novembre 2010

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