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La Fiat, Mirafiori e il mantra ambiguo della produttività

Dopo Pomigliano, Mirafiori. E’ il remake di un film già visto: lievi adattamenti ma la trama è la stessa. Lo rivedremo ancora, stabilimento dopo stabilimento. Per la Fiat in Italia è la partita della vita, per la Fiom, ma in realtà per tutto il sindacato, è la prima vera prova di questo dopocrisi che non comincia mai.
In ballo c’è una cosa grossa, più importante di quanto non lo sia la Fiat per l’Italia, in ballo c’è il riavvio della macchina dello sviluppo in un paese che da vent’anni ormai non cresce praticamente più.
La parola chiave è ‘produttività’, quella che in Germania sono stati bravissimi a rimettere in moto e da noi invece no. Il punto dove le culture si scontrano è chi abbia la responsabilità di questa produttività che non cresce e chi abbia il compito di rimetterla in moto.
Per 15 anni ci hanno detto che il problema era la flessibilità del lavoro, ovvero nei fatti la sua precarizzazione.
Oggi,dopo aver flessibilizzato tanto, scopriamo che non è così. Per tornare all’esempio della Germania, uno dei fattori del recupero della produttività è stato il reintegro all’interno delle aziende di attività che erano state esternalizzate con il famoso ‘outsourcing’. Allontanate dai venti della crisi le cortine fumogene si torna finalmente ai fatti, e i fatti sono che la produttività dipende assai più dagli investimenti che le imprese fanno in tecnologia e organizzazione che dai lavoratori. La Fiat per molti anni questi investimenti in Italia non li ha fatti, in buona parte perché non se li poteva permettere e anche perché le casse pubbliche esangui non hanno potuto fare quello che in molti altri paesi hanno fatto. Se la produttività negli stabilimenti della Fiat in Italia è bassa dipende quindi anche dall’assenteismo e dagli scioperi in alcuni momenti, ma in gran parte dal fatto che Torino non aveva risorse da investire. Nel 2004, lo sappiamo, era sull’orlo del baratro e certamente dobbiamo essere grati a Sergio Marchionne per averla brillantemente tirata fuori,di averla tenuta in vita e internazionalizzata.
Arrivati alla fine del 2010 si apre un’altra fase. Gli impianti italiani così come sono producono perdite mentre il resto del mondo guadagna, per tenerli in piedi bisogna investire, trasformarli radicalmente per aumentarne la produttività. La Fiat annuncia di volerlo fare e parla di un piano di 20 miliardi di euro di investimenti. I dettagli mancano, non sappiamo da dove arriveranno quelle risorse e come saranno impiegate, cosa si produrrà e dove, ma questo è un implicito riconoscimento che il primo e fondamentale passo per rilanciare la produttività lo deve fare l’azienda.
E’ una scommessa che Marchionne fa, ma lui ha dimostrato di essere capace di rischiare, e c’è da augurarsi che la scommessa riesca. Una delle condizioni è la governabilità degli stabilimenti. L’azienda impegna nel progetto molte risorse ma gli stabilimenti devono produrre, quei 20 miliardi in macchinari e quant’altro devono girare a pieno ritmo, anzi a pieno e veloce ritmo.
Avere la ragionevole certezza di governare gli impianti vuol dire eliminare i fattori di rischio che potrebbero ridurne la produttività, e in particolare i rischi che potrebbero derivare dai comportamenti dei lavoratori. E’ questa la ragione per la quale la Fiat è così rigida su due temi delicatissimi come l’assenteismo e gli scioperi per bloccare gli straordinari.
L’assenteismo è una malattia italiana, che prospera essenzialmente perché non c’è la percezione da parte dei lavoratori dei danni che ad essi stessi l’assenteismo provoca. Così come l’evasore fiscale danneggia prima ancora che lo Stato il cittadino che paga le tasse, così l’assenteista prima ancora che l’azienda danneggia il suo collega che si presenta regolarmente al lavoro. In parte perché lo costringe a lavorare di più, e soprattutto perché lo rende meno credibile quando si assenta per un serio motivo. L’assenteismo toglie legittimazione a tutte le assenze, quelle pretestuose inquinano anche quelle pienamente giustificate.
Questo danno sta diventando concreto, nella pubblica amministrazione i giorni di malattia retribuiti sono stati drasticamente tagliati con danno per chi si ammala sul serio, e la Fiat propone di non pagare il primo giorno di assenza per malattia. I malati pagano per i sani. La proposta della Fiat è difficile da accettare proprio perché danneggia chi si ammala, ma il sindacato dovrebbe impegnarsi con assai maggiore determinazione per correggere i comportamenti opportunistici che indeboliscono la sua capacità di tutelare gli interessi di tutti i lavoratori.
Quanto agli scioperi durante gli straordinari concordati, rivelano una malattia grave del nostro sistema di relazioni industriali. In Italia, e non solo nel sindacato, c’è una originale interpretazione della democrazia, per cui si vota, la maggioranza vince e sigla un accordo, dopodiché chi a favore di quell’accordo non ha votato si ritiene libero di disattenderlo. Lo vediamo nei meccanismi dei partiti, dove c’è sempre qualcuno pronto a distinguersi dalle posizioni della maggioranza e lo vediamo nelle relazioni industriali. Se gli accordi decisi dalla maggioranza dei lavoratori venissero rispettati da tutti, non ci sarebbe il rischio di scioperi durante gli straordinari concordati e la Fiat non pretenderebbe di vietarli contrattualmente.
La Fiat fa un errore, lo sciopero è un diritto individuale non negoziabile, ma il sindacato ha il dovere di affrontare il problema dell’efficienza e dell’efficacia della sua democrazia interna.
Insomma se vogliamo rilanciare la produttività non solo dell’Italia ma del paese, l’impresa innanzitutto deve fare la sua parte, che è quella maggiore, ma anche il sindacato deve fare la sua, senza la quale lo sforzo delle imprese non ci sarebbe o perderebbe di efficacia.
Ma la governabilità della fabbrica è solo il primo punto che un piano di investimenti impone di affrontare. Ce ne sono almeno altri due non meno rilevanti: l’utilizzo dei lavoratori e l’utilizzo degli impianti. Quale contributo è lecito chiedere ai lavoratori per aumentare la produttività? Fino a che punto ci si può spingere? Quanta parte della maggiore ricchezza prodotta grazie all’aumentata produttività andrà al capitale e quanta al lavoro?
Il cuore del negoziato industriale è questo ed è qui che il sindacato deve riuscire a tutelare al meglio gli interessi del lavoro senza compromettere l’investimento. La competizione internazionale è durissima, ma la partita non può essere giocata al ribasso, la nostra società non sarà né migliore né più ricca se riuscirà a competere grazie al fatto che si pagano salari cinesi e si garantiscono tutele cinesi. Nella famosa Germania, ma anche la meno famosa (da questo punto di vista) Francia, gli stipendi sono significativamente maggiori di quelli italiani e non sembrano nazioni in fallimento. Diritti, peso e qualità del lavoro, remunerazioni adeguate devono essere il risultato di un negoziato nel quale il sindacato ha fatto fino in fondo l’interesse dei suoi rappresentati.
Infine c’è l’ultimo punto, l’utilizzo degli impianti. Aumentare la produttività vuol dire fare lo stesso numero di auto con un numero minore di addetti o farne un numero maggiore, o di un livello più alto, con lo stesso numero di addetti. La tecnologia distrugge lavoro e l’unico modo per recuperare quello che la tecnologia distrugge è lo sviluppo. La Fiat dice di voler seguire questa strada, e in effetti non avrebbe senso investire 20 miliardi di euro per continuare a produrre in Italia 700800 mila auto. Dice di voler raddoppiare. E’ in effetti l’unico modo per mantenere e forze aumentare l’occupazione in stabilimenti più efficienti. Il problema è: quali macchine? La Fiat ha nel cassetto un numero di modelli tale da consentire di produrre in Italia un milione e mezzo di vetture? E’ in grado di assicurarsi quote di mercato in grado di assorbirle?
Marchionne fino a questo momento ha tenuto coperte le carte, forse è giunta l’ora di scoprirle.

Fonte: Affari e Finanza del 6 dicembre 2010

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