Piccoli e medi trainano la rinascita dell’ export e dell’ occupazione I protagonisti italiani L’ esempio virtuoso della Mapei di Giorgio Squinzi con 56 stabilimenti, i prodotti Intercos, i grandi marchi internazionali del lusso, la crescita della Zobele fino a tremila addetti e i gas tecnici della Sol, della Siad e della Sapio L’ evoluzione Spiega Gianpaolo Vitali del Ceris-Cnr: «C’ è stata dagli anni 80 una profonda evoluzione, la grande chimica di base è quasi scomparsa ma la chimica fine adesso è all’ avanguardia». La scelta di prodotti per esigenze specifiche dei clienti.
Trevira è un marchio di poliestere giudicato il più importante d’ Europa e pochi giorni fa è diventato italiano grazie a Paolo Piana, un imprenditore biellese che guida la Sinterama, 120 milioni di euro di fatturato. Quello di Piana è sicuramente un blitz ma fa parte di una mutazione della chimica italiana che vede protagonisti tanti industriali medi, o addirittura piccoli, diventati decisivi in un business tradizionalmente dominato dai colossi. I nomi delle new entry dicono poco al grande pubblico, si chiamano Endura, Coim, Intercos, Zobele, Sapio, Acs-Dobfar, Clerici Sacco e P&R. Producono vernici, adesivi, cosmetici, detergenti e rappresentano la seconda vita dell’ industria chimica, la vittoria della specializzazione sulla dimensione. Quando in Italia si parla del settore, il pensiero di tutti corre ai grandi impianti petrolchimici del Novecento industriale, a cattedrali dell’ impresa come Montedison, Enimont, Snia, Caffaro, fino al disgraziatissimo impianto di Marghera (oggi Vinyls), e il giudizio che se ne trae è uno solo: siamo fuori gioco. Abbiamo sciupato le carte migliori negli anni 80, si dice, e da allora abbiamo assistito a un lento e inesorabile declino,se non addirittura a una deindustrializzazione. Persino la bibliografia accademica che analizza il comparto è rimasta nostalgicamente ferma agli anni che furono. I fornitori del made in Italy Ma è davvero così? Le nostre fortune si sono giocate cinque o sei lustri orsono e da allora non abbiamo toccato più palla? Tutt’ altro, sostiene il professor Giampaolo Vitali, economista industriale del Ceris-Cnr, che ha pubblicato di recente una mappa-analisi aggiornata della chimica italiana. Spiega Vitali: «C’ è stata dagli anni 80 ad oggi una profonda evoluzione del business che ha visto la quasi scomparsa della grande chimica di base, ma intanto si è affermata una nuova leva di medie imprese che hanno fatto della chimica fine un’ industria all’ avanguardia e capace di produrre profitti». Un numero fotografa il trend: le imprese che hanno saputo darsi una nuova specializzazione produttiva occupano il 63% degli addetti del settore contro il 37% degli occupati nella chimica di base. Ma non è solo il contributo in posti di lavoro a rendere orgogliosi piccoli e medi: le loro aziende sono stati capaci anche di diventare i fornitori più importanti di tutti i comparti industriali del made in Italy. L’ abbigliamento, le piastrelle, l’ industria del mobile, l’ occhialeria vanno avanti anche grazie all’ innovazione che arriva dai prodotti intermedi (chimici), a quei nuovi materiali decisivi per rinnovare il mito dell’ eleganza e della creatività italiano. In Federchimica spiegano i progressi fatti nel campo dell’ innovazione dalle aziende associate anche con un altro numero chiave: 1 su 4 dei neoassunti nelle aziende del settore è laureato, contro una media dell’ industria italiana che si ferma a 1 su 10. E nelle classifiche europee dell’ innovazione i piccoli della chimica italiana vengono al secondo posto, dietro solo agli invincibili tedeschi. «Probabilmente anche la chimica risente del modello tipico del nostro sistema industriale, in cui si fa innovazione senza ricerca, grazie all’ uso della conoscenza tacita e dell’ innovazione incrementale» annota Vitali. In molti casi, l’ innovazione di prodotto viene realizzata semplicemente modificando le fasi standard del ciclo chimico. Anticipando o posticipando alcune lavorazioni e utilizzando macchinari modificati ad hoc, le molecole si materializzano in un risultato diverso da quello tradizionale ottenendo così un prodotto che risponde alle esigenze del cliente. Le specialità dalle vernici ai cosmetici Sembra l’ uovo di Colombo ma come è stato possibile che, nel giro tutto sommato di pochi anni, avvenisse una (silenziosa) rivoluzione di questa portata? La spiegazione è duplice. Da una parte è cambiato il business. Mentre una volta era decisiva l’ integrazione tra la chimica di base e quella a valle, oggi è diventato più importante il valore aggiunto del prodotto finale. E quindi non c’ è più bisogno di avere alle spalle i megaimpianti petrolchimici per muoversi con successo, non è più la condicio sine qua non. Di conseguenza anche in un settore in cui i grandi hanno fatto la storia e le multinazionali fanno il bello e il cattivo tempo si è cominciato a parlare correntemente di nicchie di mercato. E qui arriviamo alla seconda motivazione della piccola rivoluzione italiana: i nostri medi imprenditori sono stati bravissimi a cavalcare queste novità, hanno fatto di necessità virtù e le nicchie sono diventate centinaia, creando via via dei leader nazionali capaci poi di affermarsi anche sui mercati internazionali. Del resto l’ export della chimica italiana è cresciuto del 20% in 15 anni e la performance più significativa è merito proprio di adesivi e ausiliari per l’ edilizia, vernici, cosmetica, la nouvelle vague della chimica di specialità. Grazie a questa trasformazione nel 2010 la chimica made in Italy ha fatto segnare +8% di ricavi, un risultato ancora una volta inferiore ai colleghi tedeschi ma migliore della media del manifatturiero italiano. Se depuriamo i dati dal (debole) mercato interno viene fuori che le esportazioni sono riuscite addirittura ad azzerare le conseguenze della Grande Crisi e ci sono imprese che hanno ripreso a produrre elevate redditività. Spiega Vitali: «La domanda per la chimica di specialità è tendenzialmente in aumento nelle economie mature, dove la qualità dell’ industria manifatturiera richiede prodotti chimici a elevato contenuto innovativo e che rispettino i vincoli ambientali ed energetici». Le previsioni di Federchimica per il 2011 parlano di un più contenuto +2,2% perché è finito l’ effetto rimbalzo, la domanda mondiale è in rallentamento, ci sarà da scontare il rincaro delle materie prime e il mercato italiano rimarrà debole. Concorrenti di Basf e Dow Ma come fanno i piccoli a coltivare persino una leadership internazionale anche senza possedere una dimensione elevata? Quando le Pmi italiane affrontano la concorrenza di giganti come Basf o Dow in realtà fronteggiano una singola divisione dei grandi colossi multinazionali, quella attiva nel loro business. È così che si sono create le condizioni per storie di successo come la Mapei, impresa leader a livello mondiale, che fa vernici ed esprime anche il presidente della Federchimica italiana ed europea (Giorgio Squinzi) con quasi 1.700 milioni di euro di fatturato e ben 56 stabilimenti; mentre nella cosmetica il nome da ricordare è Intercos che produce conto terzi per le grandi marche internazionali. Ma non vanno dimenticati gli antizanzara della Zobele che hanno contribuito a creare un gruppo da 3 mila addetti e 200 milioni di fatturato, i gas tecnici della Sol, della Siad e della Sapio, gli antibiotici della P&R, la penicillina della Acs-Dobfar, il Pet della Mossi & Ghisolfi. A differenza dei settori di tradizionale forza della nostra industria le Pmi della chimica non hanno adottato il modello distrettuale, non sono cresciuti sistemi territoriali diffusi. Ma nonostante ciò, secondo Federchimica, si tratta di un made in Italy «rafforzato» perché più difendibile dal punto di vista dei vantaggi competitivi e meno delocalizzabile proprio perché trae spunto dai tradizionali valori della piccola e media impresa familiare: flessibilità produttiva, personalizzazione del prodotto, qualificazione della manodopera e presidio delle nicchie emergenti. Ed è diventato un fattore di successo persino il fatto che i nostri piccoli si basino su strategie di crescita che massimizzano lo sviluppo di medio-lungo periodo e non di breve, come i mercati borsistici richiedono alle multinazionali. La rimonta nella «catena globale» Appresa la lezione che viene dalla nuova chimica resta sotto traccia una domanda finale: il mutamento di pelle di uno dei bastioni della grande impresa ci dice qualcosa sulle trasformazioni dell’ industria italiana che va al di là delle dinamiche di un singolo settore? A leggere quanto ha scritto recentissimamente il capo del servizio studi della Banca d’ Italia, Salvatore Rossi, in un paper («Le imprese italiane tra crisi e globalizzazione») realizzato assieme ad Antonio Accetturo e Anna Giunta, sembrerebbe proprio di sì. Le sorprese non sono finite. Scrive infatti Rossi: «Numerose imprese italiane si sono orientate da anni a fornire input intermedi ad altre imprese, piuttosto che a produrre beni finali. In origine poteva essere un segno di debolezza, ma negli anni più recenti le esperienze si sono diversificate». E sono emerse storie di successo. «In una catena globale del valore ci si può stare da locomotore o da vagone di coda». Per cui, a giudizio degli economisti di via Nazionale, «le sorti del nostro sistema produttivo dipenderanno anche dalla capacità delle imprese intermedie di affrancarsi dal singolo grande committente e proporre i propri prodotti sul mercato globale dei beni intermedi». I piccoli chimici sembrano essere più avanti in questa scommessa e comunque per gli imprenditori di taglia medium & small l’ apertura di credito che arriva da Palazzo Koch è una novità da festeggiare.
La chimica scopre la seconda vita. Addio colossi crescono le nicchie
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