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E il made in Italy recluta i cinesi di seconda generazione

Le aziende 24 aziende hanno mandato i loro reclutatori a caccia di giovani talenti del Dragone.
Alla fine i giovani cinesi hanno riempito la sala convegni dell’ Assolombarda chiamati dalla Fondazione Italia-Cina. In più di 150 hanno ascoltato con attenzione le relazioni di manager e sociologi e poi si sono messi in fila per il momento-clou: i colloqui one-to-one con le aziende italiane. E’ nato così ieri a Milano il primo esperimento di borsa del lavoro italo-cinese e le imprese hanno risposto alla grande. Ben 24 aziende, alcune con nomi altisonanti (Fendi,Ferragamo,Brembo,Pininfarina,Pirelli Tyre,Max Mara, Iveco, Manuli) e altre meno conosciute (Eldor, Boggio Casero, Ever, Tenova), hanno mandato i loro reclutatori a caccia di talenti cinesi. Giovani come Daniele Zhang, classe 1988, fiorentino di nascita e di accento, figlio di due cinesi venuti in Italia ad aprire un laboratorio di pelletteria. Daniele ha scelto di non lavorare nell’ azienda di famiglia, frequenta ingegneria a Pisa ed è indeciso se completare il ciclo di studi dopo il triennio oppure accettare un’ offerta di impiego. «Per me è importante la retribuzione» sostiene e racconta di sentirsi italiano «al 45% ma con il passare degli anni la mia parte cinese cresce d’ importanza». Se agli ultimi mondiali ha tifato Italia ora «terrei per la Cina». Vorrebbe lavorare nel settore aeronautico, magari facendo la spola tra l’ Italia e Pechino. Yongmin Wang invece è nato in Cina e ha raggiunto a 11 anni i genitori emigrati in Italia per mettere su un ristorante prima a Taranto e poi a Cagliari. I genitori gli hanno pagato la Bocconi e lui si è laureato. Spera di essere assunto da un’azienda italiana ma non vuole lasciare il nostro Paese (anche se giudica «buttati via» gli ultimi dieci anni della nostra storia).E’riconoscente verso chi l’ha aiutato a inserirsi però si sente «disconosciuto» dalle istituzioni. Della Cina attuale segnala le grandi disparità «tra le regioni costiere ricche e quelle interne povere», pensa però che quando le autorità di Pechino decidono di affrontare un problema presto o tardi ne vengono a capo. Yaxi Yan è una ragazza di 28 anni che vive in provincia di Brescia. Si è laureata in ingegneria in Cina ed è in Italia da 6 anni. Ha studiato la nostra lingua a Urbino e poi ha frequentato un master alla Bocconi. Vorrebbe lavorare come manager nei settori della moda, del vino o del design e ovviamente del Belpaese apprezza cultura e stile. Anche lei non vuole lasciare definitivamente l’ Italia ma vorrebbe dividersi tra Milano e Shanghai. Du Yangwu è venuto in Italia nel ‘ 99 e ora ha 25 anni. I genitori hanno un’ attività di commercio ambulante a Genova e lui si definisce di «crosta italiana e cuore cinese». Laureato in economia, si sente italiano per riconoscenza ma ci considera «troppo lenti, poco propensi a rischiare». Le nostre aziende avrebbero dovuto puntare sul mercato cinese molto prima così come dovremmo realizzare in Italia le grandi opere che servono (suggerisce «il terzo valico della Liguria»). Dell’ Italia apprezza il rispetto per l’ ambiente e ne ammira la creatività. Bai Junyi è un avvocato trentenne di Prato e presiede Associna. E’ arrivato in Italia a 8 anni e si è laureato qui. Sostiene che i giovani italo-cinesi oggi vivono «all’ ombra della società» ma possono rappresentare un ponte tra le due culture e una risorsa per il made in Italy. La conferma della bontà dell’ intuizione avuta dalla Fondazione Italia-Cina con il Career day viene dai manager reclutatori. Commenta infatti Manuel Cesaroni della Manuli Rubber: «Ho visto ragazzi con curriculum di assoluto rilievo e animati da una grande voglia di tornare in patria. Più dei nostri hanno la dimestichezza con le lingue. Ne conoscono anche quattro».

Fonte: Corriere della Sera del 17 febbraio 2011

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