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Così il made in Italy ricomincia dall’alimentare

Bene difendersi ma per una politica industriale servono alleanze e aggregazioni. La strategia. I francesi coltivano l’ arte dell’ ambiguità, praticano la tradizione colbertista quando ci si deve difendere, elogiano il mercato quando attaccano.
Per una volta cominciamo parlando male degli altri. Mentre la multinazionale francese Lactalis annunciava di aver messo in atto un blitz sull’ italiana Parmalat e di volersela annettere, a Parigi il ministro delle Finanze Christine Lagarde e quello dell’ Agricoltura Bruno Le Maire si sono espressi ufficialmente contro gli americani della General Mills, rei di voler acquistare la maggioranza della Yoplait compromettendo «il futuro dell’ industria lattiera in Francia». Sembra incredibile ma è proprio così. E non è tutto. Gli autorevoli collaboratori di Nicolas Sarkozy hanno anche fatto sapere che stanno valutando l’ ingresso nella Yoplait del Fondo strategico di investimenti, un vero e proprio fondo sovrano che già dal nome evoca più Pechino che New York. I nostri cugini coltivano dunque l’ arte dell’ ambiguità, praticano la tradizione colbertista quando ci si deve difendere, elogiano il mercato quando sono loro a vestire i panni dell’ attaccante. Il guaio che le vittime designate del doppiopesismo lattiero-caseario siamo noi, figli di un capitalismo minore che non è stato mai né autenticamente renano né tantomeno anglosassone. Di fronte al pericolo di farsi colonizzare dalle multinazionali transalpine il governo italiano ieri, per mano di Giulio Tremonti, ha battuto un colpo e ha promesso di stendere entro un mese una legge anti-scalata. Che, come con la sua tagliente ironia il ministro ha preannunciato, dovrebbe ricalcare proprio la normativa esistente in Francia. Di fronte a provvedimenti di stampo dirigista chi crede nell’ integrazione europea e nel mercato unico non può mai esultare ed è invece più portato a sottolineare le incoerenze del governo di Roma. A biasimare come il disinteresse dell’ esecutivo nei confronti della politica industriale sia stato non solo praticato ma anche teorizzato. Quanti mesi ci sono voluti per nominare un ministro delle Attività Produttive? Quasi quasi Claudio Scajola faceva a tempo a tornare! E perché mai si è pensato che fosse più funzionale all’ interesse del Paese uno spezzatino delle competenze di quel ministero? I francesi ci dimostrano invece che una politica industriale è utile, forse necessaria, si tratta solo – da parte nostra – di coniugarla in chiave moderna. E per farlo servono innanzitutto veri imprenditori e veri capitali. La disponibilità annunciata ieri dalla Ferrero, uno dei grandi nomi dell’ industria tricolore, sicuramente conforta quanti sperano nella capacità di reazione del sistema Italia. Nella stessa giornata in cui abbiamo emesso un segnale di «stop» (da Roma), fortunatamente ne abbiamo dato anche uno di «go» (da Alba). Ora tocca ai banchieri e agli industriali disegnare un progetto che non sia solo difensivo, che non serva solo a rintuzzare la Lactalis ma che punti a produrre ricchezza e lavoro. E il business del latte ha dalla sua due importanti vantaggi competitivi: a) il prodotto viene pagato cash e quindi è una straordinaria leva finanziaria; b) la logistica di quello che una volta veniva chiamato «l’ oro bianco» è strategica, è un binario sul quale possono transitare molte altre specialità. Più in generale le potenzialità di export di cibo italiano sono ancora inesplorate ed è proprio di ieri un dato che lo dimostra: il prosciutto di Parma nel 2010 ha fatto registrato un incremento delle vendite all’ estero di poco inferiore al 10%. E le performance del Parmigiano Reggiano – solo per restare in zona ducale – sono ancora migliori: +12%. La verità è che non abbiamo solo dei prodotti di assoluta qualità, conosciamo anche l’ arte di abbinarli e di combinarli. Per questo motivo Lactalis ha il vizietto di comprare aziende italiane, le assicurano – come hanno ammesso di recente i suoi top manager – «reputazione e margini di profitto», danno quindi al brand francese qualità e soldi. Ma perché avendo l’ Eldorado in casa noi italiani dobbiamo aspettare che siano i cugini a spiegarcelo e a dimostrare che formaggi, salumi e sughi possono essere nell’ epoca della globalizzazione uno straordinario business? Un pessimista potrà obiettare che ce ne stiamo accorgendo troppo tardi, che per anni abbiamo fatto la fortuna delle multinazionali a caccia di marchi. L’ elenco è sterminato e ve lo risparmiamo per amor di patria e di territori. Ma a questo punto scordiamoci il passato e vediamo cosa può venire fuori da un raggruppamento che veda associati, anche solo in parte, Parmalat, Ferrero, Granarolo e Lega Coop. La sensazione è che si possa fare molto di più di un mero polo del latte e ci siano tutti gli elementi per far crescere sul campo una nuova politica industriale, che sappia tenere in conto non solo le ragioni della produzione ma soprattutto il valore della distribuzione. Il made in Italy deve arrivare sugli scaffali giusti, altrimenti staremmo solo giocando.

Fonte: Corriere della Sera del 19 marzo 2011

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