Parmalat, Edison, Fondiaria, Generali: sembra una nuova campagna d’Italia di napoleonica potenza, anche se si tratta di finanza. Si aggiungono i contrasti sull’intervento in Libia, sugli obiettivi, i modi, i tempi, e il dopo, con il sospetto che i Mirage aprano la strada a Total e alle imprese transalpine desiderose di scalzare l’Italia nei rapporti privilegiati con Tripoli e i suoi campi petroliferi.
Che Sarkozy voglia menar le mani sembra evidente. Così come appare chiaro che il capitalismo transalpino, superata la crisi, intenda mettere in campo le sue risorse migliori, la capacità di fare squadra e muoversi in modo sistematico, penetrando in un mercato ricco presidiato da capitalisti deboli, divisi, confusi. Tuttavia, le vicende che oggi appaiono legate da un comune fil rouge, sono diverse e vanno viste nella loro concretezza.
Il caso Parmalat è l’ultimo esempio. Enrico Bondi, garantita la continuità produttiva nel bel mezzo del più colossale scandalo finanziario degli ultimi decenni e risanata l’azienda, ha cercato per anni una soluzione industriale che garantisse una solida continuità. Sono circolate le ipotesi più diverse, ma nessuna di esse è diventata realtà. Ora la scalata di Lactalis finisce nelle mani della magistratura e ciò aumenta l’incertezza. Il Governo ha offerto tempo, ma sotto la pressione dei galli alle porte, può prendere corpo quello che in anni non s’è mai materializzato? Nel caso di Bulgari non è successo.
Più in generale, in due comparti industriali importanti come l’alimentare e il lusso, l’Italia negli ultimi trent’anni non è stata in grado di creare realtà davvero capaci di superare la dimensione del capitalismo familiare. Non c’è nessuna Lvmh, non c’è nessun “polo agro-industriale”, un sogno che dalla privatizzazione della Sme in poi è stato inseguito vanamente, con il risultato di regalare alcuni dei marchi migliori: Motta, Alemagna, Perugina, Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Cirio e potremmo continuare all’infinito. Oggi è Lactalis, ma ieri erano Kraft, Nestlé, Unilever. Non è un destino cinico e baro, si può sempre cambiare passo, però bisogna cominciare. Dobbiamo chiedere reciprocità, ma soprattutto dobbiamo mettere in campo capitali consistenti e imprenditori capaci. Inutile piangersi addosso: c’è un gruppo italiano in grado di comprarsi Danone? Ci aveva provato Umberto Agnelli, ma non gli è riuscito.
Prendiamo Edison, azienda se vogliamo ancor più importante perché l’elettricità è davvero strategica, ben più del latte in scatola. Qui la vera perfidia non è francese, ma tutta italiana. Fino al 2000, anno in cui muore Enrico Cuccia, Mediobanca è la prima azionista di Montedison, seconda impresa italiana. Fiat, che alla guida di Paolo Fresco voleva diversificarsi al massimo, una volta collocata l’auto nella General Motors (così s’illudeva), lancia la scalata a Edison sostenuta dalle sue principali banche creditrici. Edf viene chiamata dalla Fiat per sostenerla nell’impresa.
Il risultato è devastante: Fiat già indebitata e in crisi comincia ad affondare; nel dicembre 2001 tenta un aumento di capitale ma accumula perdite fino a otto miliardi e nel 2004 è praticamente fallita. Montedison viene spolpata e devastata (non esiste più). Edison resta in vita in equilibrio precario, fifty-fifty, con le municipalizzate. È il primo operatore elettrico privato, ma alla fine i suoi impianti maggiori sono le vecchie centrali Montecatini sottratte alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Adesso Edf vuol scalzare A2A. La verità è che sono stati gli italiani (o meglio la Fiat) a combinare il pasticcio fin dall’inizio. Vediamo se adesso saranno in grado di rimediare.
Lo stesso vale con l’ingresso di Vincent Bolloré e la cordata francese in Mediobanca. Quando Unicredit di Alessandro Profumo e Capitalia di Cesare Geronzi si fanno sotto per scalzare Vincenzo Maranghi (siamo subito dopo la morte di Gianni Agnelli), il delfino di Cuccia usa i vecchi amici di Lazard (o ex Lazard, visto che la banca d’affari parigina è ormai diventata americana) come spauracchio: sono Antoine Bernheim, allora presidente di Generali, e il suo poulain Bolloré.
Per una di quelle eterogenesi dei fini così frequenti in politica e in finanza (qualcuno la chiamerebbe voltafaccia) i francesi diventano azionisti di Mediobanca con il 10%, stringono un patto con Unicredit e Capitalia e nel 2003 defenestrano Maranghi. Adesso, approfittano dei nuovi conflitti lungo l’asse Milano-Trieste e della crisi di Salvatore Ligresti, vecchio alleato di Cuccia che lo ha sempre sostenuto, per cercare di impadronirsi di Fondiaria, seconda azionista di Mediobanca, che Maranghi aveva sfilato alla Fiat per consegnarla al fido Ligresti. Se il colpo riuscisse, Bolloré e Groupama diventerebbero padroni di Mediobanca e, di conseguenza, primi azionisti delle Generali.
Come impedirlo? La Consob ha messo in campo un corretto strumento di mercato: se volete Fondiaria lanciate un’Opa, ha detto spaventando per il momento i francesi. Ma né la reciprocità, né la magistratura, né leggi protezioniste possono ricreare equilibri spezzati per sempre. E allora? Allora, capitalismo italiano se ci sei batti un colpo.
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