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Il sorpasso dei Piccoli nell’export alimentare

Dalle Langhe a Angri, la crescita del made in Italy Nel Barolo, nel Moscato o nelle conserve campane di Nocera le imprese familiari tutelano la qualità per difendere i margini.
Potrà sorprendere ma i dati più recenti lo attestano oltre ogni ragionevole dubbio: sono i Piccoli i grandi protagonisti delle esportazioni agro-alimentari italiane. Senza voler sottovalutare (anzi) la forza dei grandi marchi del made in Italy come Ferrero, Barilla e Parmalat – non a caso al centro delle manovre di mercato e degli appetiti internazionali – a capeggiare la lista dei distretti che vendono di più all’ estero sono i vini delle Langhe, Roero e Monferrato seguiti subito dopo dalle conserve campane di Nocera. Secondo infatti l’ ultima rilevazione, effettuata dal Monitor distrettuale di Intesa Sanpaolo, nel 2010 i vini langaroli da soli hanno contribuito per il 9,1% alle esportazioni agro-alimentari italiane fermandosi a un passo dal miliardo di euro (per la precisione 970 milioni). Le conserve alimentari di Nocera, soprattutto pomodori di buona qualità, pur arretrando si sono assicurati il secondo posto con 864 milioni di euro. Dopo la coppia di testa, composta per lo più da piccole e medie imprese, arriva il distretto dolciario di Alba e Cuneo, capitanato dalla Ferrero (809 milioni di euro). E via via seguono i vini del Veronese (664 milioni), l’ ortofrutta emiliana (494), i salumi del Modenese (479) che vendono esattamente quanto il distretto alimentare di Parma dei prodotti da forno, pasta e dolci imperniato sull’ attività della Barilla. Esaminando la struttura aziendale del distretto delle Langhe, Roero e Monferrato emerge come la stragrande maggioranza delle imprese (211 su 272) abbia meno di 10 dipendenti. Producono per lo più Barolo, Moscato d’ Asti e Barbaresco e i loro marchi sono anch’ essi noti al pubblico come Gancia, Fontanafredda e Gaia. All’ estrema articolazione delle imprese corrisponde anche una differenza di posizionamento, con alcuni Piccoli che hanno saputo collocarsi più «in alto di gamma» portando a casa margini di guadagno interessanti e altri invece che puntano di più sui volumi. Maria Teresa Moscarello è la titolare di un’ azienda artigianale di (centenaria) tradizione familiare che ha sede nel comune di Barolo. Del prezioso rosso locale (che si produce solo in 11 comuni piemontesi e in nessun altra parte del mondo) ne produce non più di 15-20 mila bottiglie l’ anno, il resto è diviso tra Dolcetto, Freisa e Nebbiolo. Moscarello esporta due terzi della produzione in tantissimi Paesi dall’ Europa fino ad Hong Kong. «Di vino non ne ho abbastanza per tutti – racconta – Ma noi siamo un’ eccezione, siamo sempre voluti rimanere piccoli per puntare sulla qualità e il prezzo. E quando vedo che negli autogrill il barolo viene venduto in promozione 3×2, mi arrabbio». Domenico Ravizza, invece, è il proprietario della Vicara, una piccola azienda del Monferrato: «Qui da noi la Grande Crisi fortunatamente non ha fatto vittime – spiega -. Tutti hanno resistito e oggi ci preoccupa il calo dei consumi nazionali più che l’ export». Le strategie commerciali dei Piccoli passano per la scelta di un importatore straniero che spesso applica un ricarico fino al 100% e gode di uno strapotere negoziale. L’ importatore gestisce trasporto e tasse e poi passa la palla ai distributori che portano il vino italiano al consumatore finale. La catena si presenta lunga e qualcuno ha pensato di tagliarla, come Giorgio Rivetti che ha creato negli Usa una propria struttura di importazione. Dalla terra di Beppe Fenoglio e Cesare Pavese i vini made in Italy prendono per lo più la via della Germania, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Da soli questi tre Paesi assorbono quasi il 60% delle esportazioni langarole. Nel 2010 il distretto ha guadagnato in fatturato all’ estero il 10% ma la tendenza più recente è ancora migliore visto che nell’ ultimo trimestre si è viaggiato a +24,6%. In tema di vini, nella classifica del Monitor distrettuale di Intesa Sanpaolo, si segnala anche la performance delle ditte veronesi che producono Amarone e Valpolicella. Anche in questo caso la struttura aziendale è estremamente frammentata ma mostra comunque grande capacità di esportazione. E si segnala il fenomeno delle cantine sociali, nate con una logica solamente produttiva e invece via via si sono trasformate dotandosi di un proprio marchio. Ma il caso di successo che merita maggiore attenzione (anche perché stiamo parlando di una delle «perle» del nostro Sud) è rappresentato dalle conserve del distretto salernitano di Nocera e Angri: nel 2010 hanno rappresentato l’ 8,1% dell’ intero export dell’ agro-alimentare made in Italy. Anche in questo caso sono i Piccoli la maggioranza del distretto: su 224 aziende ben 128 hanno meno di dieci addetti. Due sono le aziende medio-grandi che spiccano sulla combriccola: La Doria, quotata in Borsa e di proprietà della famiglia Ferraioli e la A.R. di Antonino Russo. Tutti, grandi e piccoli, esportano nella stragrande maggioranza passata di pomodoro, sostanzialmente vendono una commodity. Accanto al prodotto-base però cominciano a spuntare prodotti diversificati e a maggior valore aggiunto come conserve di legumi, sughi pronti, polpe di pomodoro aromatizzate. La differenza è che un’ azienda più grande come La Doria vende molto in Gran Bretagna in diretto collegamento con i grandi distributori come Tesco e Sainsbury mentre i Piccoli devono passare per gli importatori locali, sono costretti a battagliare sui prezzi e finiscono per prediligere come mercato finale gli hard discount tedeschi. Il futuro però per entrambi è nell’ innovazione, anche perché la Grande Crisi ha messo alla frusta i venditori di commodity più degli altri. Non è un caso che le vendite all’ estero di pomodoro salernitano nel 2010 abbiano perso circa il 10% di fatturato e quindi tenere le posizioni (e i prezzi) diventa una fatica di Sisifo. Commenta Fabrizio Guelpa del servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo: «Nell’ alimentare i Piccoli possono crescere ancora molto beneficiando del generale apprezzamento per l’ Italian way of life. Non solo moda e mobili, dunque, ma anche cibo». Quanto al posizionamento di mercato le Pmi possono puntare sulla qualità e il valore aggiunto sviluppando «uno stretto legame con l’ agricoltura di territorio». Deve restar chiaro però, e Guelpa lo sottolinea, che «lo sviluppo estero non è facile mancando una grande industria della distribuzione organizzata a bandiera italiana».

Fonte: Corriere della Sera del 29 marzo 2011

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