«Se è caro dev’essere strategico»: la battuta sarcastica di un manager per un’acquisizione discussa, mi ha reso diffidente. Usato in modo proprio, «strategico» qualifica come razionale un piano volto a un obiettivo; ma a volte si usa al contrario, per giustificare l’obiettivo e far passare per razionale il piano per raggiungerlo.
È il caso del piano antiscalate che l’Economia sta approntando: sembra razionale a patto di dichiarare strategico l’obiettivo dell’italianità. «Difendere a tutti i costi la proprietà italiana con risorse pubbliche e cambiando le regole del gioco è peggiore del male che si vuole curare», ha scritto Guido Tabellini domenica; se il nostro diventa un mercato protetto, con aziende non contendibili, aumenteranno il disinteresse degli investitori istituzionali e la sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Tabellini si chiede: opportunismo politico o più semplicemente idee sbagliate? Respingendo gli investimenti esteri, respingiamo anche idee, tecnologie, relazioni che servono per crescere.
Purtroppo la realtà è ancora peggiore. Ieri è stato modificato lo statuto della Cassa depositi e prestiti che potrà prendere partecipazioni dirette in aziende private quando ciò sia di «rilevante interesse nazionale». In termini di: «strategicità del settore, livelli occupazionali, entità del fatturato o ricadute per il sistema economico-produttivo». Praticamente tutto. Una partecipazione non strategica può far diventare strategica la capogruppo (com’è stato per Danone che possedeva una casa da gioco a Evian). Così ai mezzi già disponibili per respingere un attacco straniero congelamento dei diritti di voto, limiti ai dividendi, maggiori poteri a Consob si aggiunge la moral suasion. Quale società che il ministro avrà dichiarato di «rilevante interesse nazionale» rifiuterà la richiesta della Cassa di diventare socio? Quale fondo vorrà giocare contro «l’azionista di ultima istanza»? Un deterrente tous azimuts, come il nucleare di De Gaulle. Non essendoci limiti all’entità della partecipazione, lo strumento potenzialmente consentirebbe di nazionalizzare qualsiasi impresa.
Non succederà: non è successo nell’epoca dello statalismo dilagante, figurarsi ora. Ma c’è l’effetto deterrenza, i danni più gravi saranno quelli che non vedremo, le iniziative abortite, gli investimenti non fatti, il graduale restringersi delle prospettive.
Mettere in campo tutta la potenza della Cassa Depositi e Prestiti, braccio operativo del Tesoro, serve per la deterrenza. Per evitare di infrangere la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato, la Cassa ha dovuto separare contabilmente due distinti rami di azienda. La «gestione separata», che finanzia gli investimenti afferenti allo Stato, utilizza il risparmio postale, soprattutto con l’emissione di Buoni Fruttiferi Postali garantiti dello Stato; la «gestione ordinaria», che finanzia infrastrutture e progetti con l’emissione di obbligazioni non garantite dallo Stato. La Cassa detiene già azioni, Eni o Enel, Finmeccanica: se impiegasse tutti i 20 miliardi di cui parla per comperare azioni di altre aziende «di rilevante interesse nazionale», gli attivi immobilizzati in azioni più che raddoppierebbero e potrebbe cambiare il profilo di rischio. Ragioni patrimoniali e operative suggerirebbero di agire con un veicolo distinto e distante dalla Cassa; ma ragioni di deterrenza richiedono una visibile contiguità.
Il fondo si propone di “salvare” comperando azioni.Come? Se sul mercato,data la modesta entità del flottante della maggior parte delle nostre aziende quotate, ne farà salire il prezzo. Se compera il pacchetto di un azionista, questo magari userà il ricavato per comperare azioni di società estere: parleremo di eterogenesi dei fini? Oppure all’azienda verrà chiesto di fare un aumento di capitale, e il fondo comprerà i diritti. Se si verificherà un’altra situazione Parmalat, scalata perché aveva un eccesso di capitale inutilizzato, sarà appropriato il neologismo «eterogenesi dei mezzi (propri)»?
Il fine non giustifica i mezzi
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