• sabato , 23 Novembre 2024

Disastro atomico

Marcia indietro sul nucleare: gli errori commessi dal governo.
Un disastro atomico. La marcia indietro del governo sul nucleare è un errore non in sé, ma per il modo in cui è stata fatta. Era opportuno, infatti, evitare la consultazione referendaria, per via delle altissime probabilità di raggiungere il quorum dopo l’ondata di emotività suscitata da Fukushima – per quanto eccessiva e in buona misura immotivata – cosa che renderebbe certa la vittoria del “sì” e con essa la definitiva archiviazione del ritorno italiano alla produzione di energia nucleare. E l’unico modo per bloccare il referendum era quello di andare legislativamente incontro alle richieste abrogative avanzate dai suoi promotori. Dunque, l’errore del governo non è stato quello di procedere allo stop, ma di averlo fatto senza dichiarare esplicitamente di essere intenzionato, alla fine dell’anno di moratoria un po’ frettolosamente decretato a ridosso della vicenda giapponese – sarebbe bastato un semestre – a riaprire il dossier, rilanciando il progetto qualora nel frattempo non fossero emersi elementi conoscitivi su Fukushima e soprattutto decisioni in sede europea, tali da consigliarne la definitiva archiviazione. Naturalmente ai fini del blocco del referendum, la normativa non poteva essere ambigua. Solo che bisognava accompagnarla con una dichiarazione politica esplicita, per bocca del premier: stiamo guadagnando tempo, il dossier nucleare è ancora aperto. Invece, niente. Il ministro Romani, lasciato solo, ha cercato di far intendere che si tratti più di un rinvio che di una rinuncia, accennando al fatto che dopo Fukushima la partita si gioca in Europa. Ma è del tutto evidente che non ci sarà nessuno a toglierci le castagne dal fuoco: siamo noi che dobbiamo autonomamente decidere se e a quali condizioni si possa riprendere il progetto di avere il 25% dell’energia che consumiamo prodotto da centrali nucleari. Perché il game europeo riguarda solo chi il nucleare l’ha già e deve decidere se e per quanto tempo tiene aperte le centrali esistenti (caso Germania) e se e in quale misura ne farà ulteriori (caso Francia), non chi come l’Italia dovrebbe operare ex novo. Insomma, in queste condizioni, la pietra messa sopra il nucleare rischia di essere non meno pesante di quella che si metterebbe se si facesse il referendum e se vincessero i “sì”.
Se poi ci aggiungiamo che tutto questo è avvenuto in assenza di normativa sulle rinnovabili, visto che si è voluto smontare appena pochi mesi dopo averlo definito un quadro normativo (il conto energia) che avrebbe dovuto durare anni, per poi spaventarsi delle reazioni suscitate dai tagli drastici agli incentivi e annunciare un ritorno sui propri passi che però non si è ancora materializzato – il nuovo decreto sono settimane che sembra pronto da un momento all’altro a vedere la luce – si capisce perché il governo sia riuscito nell’incredibile performance di non piacere né ai nuclearisti né agli anti. E, viceversa, di essere riuscito a mettere in grave difficoltà Confindustria, nel cui seno i diversi interessi potevano trovare il necessario grado di composizione e di equilibrio solo se il governo fosse stato capace di mettere in campo una politica energetica forte e stabile nel tempo. Magari, ancor meglio, discussa e definita in un quadro bipartisan, per meglio assicurare la continuità delle scelte.
E ora? Romani è stato onesto nel dire che “il problema è recuperare una strategia nazionale complessiva”, ma nello stesso tempo sa bene che quando annuncia “un piano da presentare alla conferenza sull’energia dopo l’estate” lo fa prescindendo da un quadro politico che ogni giorno diventa più complicato e confuso, tanto da indurre molti a pensare che le elezioni anticipate che si sono evitate in primavera si faranno in autunno. Inoltre, decidere ora significa prescindere dal nucleare. Vorremmo sentircelo dire da chi, il capo del governo, si è a suo tempo preso l’impegno con gli italiani di rilanciare l’atomo. Voglio dire che, con tutto i rispetto per i temi che riempiono quotidianamente l’agenda di Berlusconi, la riformulazione di un piano energetico nazionale non è cosa di seconda fila. Anche perché il costo della bolletta energetica in Italia, superiore di un terzo alla media continentale e del 70% a quello della Francia, è da sempre uno dei fattori di minore competitività del nostro sistema industriale. E se non si riduce questo gap, l’Italia non potrà tornare a crescere come dovrebbe. Si potranno scrivere i migliori Pnr del mondo, ma sarà tutto inutile. Per questo la partita che si sta giocando, e che rischiamo di aver in buona misura già compromesso, non riguarda solo sul nucleare, ma il futuro dell’intera nostra economia. Essa incrocia quella, a dir poco complessa, che riguarda la finanza pubblica, cioè la manovra da una quarantina di miliardi che dovrà essere fatta da qui al 2014 per non essere messi fuori dall’euro. Vogliamo provare a discuterne, anche se siamo in campagna elettorale?

Fonte: Il Foglio del 22 aprile 2011

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