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Perchè serve l’avanzata francese

Nemmeno il più convinto “colbertista”, né in Francia né in Italia, considererebbe il latte un settore strategico per un Paese avanzato. Lo è invece per il gruppo Lactalis, il cui azionista di riferimento, monsieur Besnier, è affetto da una «maniacale concentrazione a fare il proprio mestiere» (Franco Debenedetti, sul Sole 24 Ore del 27 aprile): mania peraltro virtuosa, come da noi insegnano molte imprese del “quarto capitalismo” che negli anni si sono costruite posizioni di tutto rispetto in mercati di nicchia ma di dimensione globale (dal piccolo gigante siderurgico Riva a nomi più famosi, come Luxottica, Ferrero, Mapei, Danieli e tanti altri).
Il timore di essere spolpati dallo straniero e d’impoverire il tessuto dei piccoli fornitori locali è ricorrente: vi ricordate quando nel 1993 il Nuovo Pignone venne ceduto dall’Eni alla General Electric (Ge), o quando nel 1991 Ifi-Fiat (costretta ad alleggerire il portafoglio) vendette Telettra ai francesi di Alcatel? Allarmi dei politici, proteste dei sindacati, polemiche sui giornali.
Ebbene, oggi il business delle turbine a gas del Nuovo Pignone, già allora dipendente da tecnologie su licenza americana, si è moltiplicato e il Nuovo Pignone è diventato nella galassia del gigante Ge nulla meno che il centro d’affari mondiale del business “Oil-Gas”, contribuendo a elevare la qualità media dei fornitori italiani di componenti e servizi lungo l’intera filiera.
Quanto a Telettra (che già nel 1980 operava su sistemi di trasmissione a fibra ottica), dopo una prima fase di ristrutturazione organizzativa e d’incertezza strategica seguita all’acquisizione da parte di Alcatel, il centro nevralgico di Vimercate si è progressivamente consolidato come centro di eccellenza.
Nel 2006 Alcatel si è fusa con l’americana Lucent (erede dei famosi laboratori Bell), diventando gruppo leader nel mondo delle telecomunicazioni (trasmissioni in banda larga, fotonica, sistemi sottomarini e terrestri), oggi con 77mila addetti (di cui 2.300 in Italia, senza contare un cospicuo indotto di fornitori) e 17 miliardi di fatturato (di cui il 7% in Italia). In Italia, Alcatel-Lucent mantiene cinque laboratori di ricerca, con una spesa pari al 7% della spesa in R&S del gruppo. Vimercate lavora in collaborazione col Politecnico di Milano (reti ottiche di nuova generazione) oltre che con le facoltà d’ingegneria di Genova, Trento, Napoli, Bari.
E a proposito di ricadute virtuose da grandi gruppi multinazionali su tessuti locali di Pmi, Vimercate è oggi il perno di un nascente “distretto high-tech” Milano-Brianza (per ora 40 aziende con 13mila addetti), che studia future reti elettriche intelligenti (mirate a impedire discontinuità nel sistema di flussi di energia elettrica) avvalendosi di circuiti integrati della StMicroelectronics: altro caso d’interazione virtuosa franco-italiana sulle frontiere delle alte tecnologie.
E così si potrebbe parlare di Sanofi-Aventis, gruppo leader mondiale nel settore farmaceutico, nato dalla fusione tra la tedesca Hoechst Marion Russell con la francese Rhone Poulenc, che in Italia occupa 3.100 addetti in cinque stabilimenti produttivi, fattura 1,5 miliardi e vanta centri d’eccellenza europei a Brindisi e Milano. E ancora nomi come Michelin, Saint Gobain, Alstom, Solvay, Thales, Schneider, alcuni dei quali hanno felicemente mantenuto e rilanciato nicchie di prodotto e innovazione, ceduti da proprietà pubblica e privata come Finmeccanica, Ausimont, Fiat.
Ormai tutti conoscono l’anomalia della struttura produttiva italiana, in cui gli occupati in imprese manifatturiere sopra i 250 addetti pesano meno del 20% del totale (contro circa il doppio nel resto d’Europa) e reciprocamente le micro e piccole imprese con meno di 50 addetti pesano circa il doppio rispetto alla media europea.
Con poche eccezioni, l’Italia è e resterà a lungo un Paese di piccoli e medi fornitori specializzati in una miriade di prodotti intermedi, componenti e attrezzature (la nostra grande industria di meccanica strumentale ed elettromeccanica, che da sola esporta più del doppio di beni di consumo del “made in Italy”), più alcuni prodotti finali di nicchia media e alta (per fortuna), che quindi hanno un estremo bisogno di consolidare i rapporti con i grandi clienti capaci di competere nella fase finale della filiera, dove sono cruciali quelle economie di scala tecnologiche e organizzative che restano inaccessibili alla piccola impresa e molto difficilmente realizzabili dalle (pur utili e innovative) reti di piccole imprese.
Discorso in parte diverso varrebbe per l’elevata propensione dei francesi a investire in Italia nei grandi mercati domestici dei servizi e delle pubbliche utilità, da Carrefour e Auchan nella distribuzione commerciale al dettaglio a Edf-Edison, Gdf-Suez e Veolia nei settori di energia e ambiente, a Capgemini nei servizi informatici, a Technip nell’ingegneria impiantistica: attività spesso caratterizzate da elevati profitti da “monopolio naturale”, da noi come altrove. Ma anche in questi settori l’efficienza e il respiro internazionale del business richiedono dimensioni e cultura manageriale che faticano a trovare protagonisti nel capitalismo nostrano.
Vale anche per i francesi, come per tutti i grandi investitori internazionali che (almeno a parole) cerchiamo di mantenere e attrarre nel nostro Paese, un saggio consiglio dei manuali di strategia economica internazionale: «If you can’t beat them, join them» (se non puoi batterli, unisciti a loro).

Fonte: Sole 24 Ore del 29 aprile 2011

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