È la pancia della Confindustria ad aver indotto Emma Marcegaglia a passare, nel giro di due anni, dal ruolo di sobria ma convinta supporter di Silvio Berlusconi a quello di suffragetta dellopposizione. La pancia, anzi i mal di pancia di una base di piccoli e medi imprenditori imbufaliti contro il Cavaliere come si può esserlo solo nei confronti di chi si considera un traditore.Il presidente imprenditore che non fa le cose per le quali è stato eletto. Non fa le liberalizzazioni, non sburocratizza, non aumenta le flessibilità del lavoro, non riduce le tasse, non sposta lIva dal fatturato allincassato.
È a questa base infuriata che la Marcegaglia ha capito, a un certo punto, di dover dare risposte. Allinizio le è pesato, perché la sua presidenza era iniziata quasi sotto il patrocinio di Berlusconi. Che, dapprima sostenne attraverso lAssolombarda la candidatura della giovane signora dellacciaio e poi, neoeletta lei e neoeletto lui, la investì di paterna fiducia con la sua fragorosa partecipazione alla prima assemblea di Confindustria presieduta da Emma dove laccostò – nella sua logica, galantemente – a una velina. E vabbè. Ha cominciato proprio nellestate del 2008 a prendere le distanze dallinazione del governo, con una serie di interventi dal tono diverso. Critico, quasi polemico.
Nel frattempo, la Fiat di Sergio Marchionne iniziava il suo braccio di ferro con la Fiom-Cgil sul piano industriale Fabbrica Italia, un contrasto che sarebbe diventato sempre più forte, fino a esplodere in una rottura senza appello, nel corso dellultima primavera. Rispetto alla vertenza Fiat, governo e Confindustria si sono diversamente defilati. Il governo, che non aveva da scambiare nulla col manager dal pulloverino nero (il quale non aveva mai gratificato di apprezzamenti né il premier, né il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi), nicchiava. Sacconi era in cuor suo contento che lodiata Cgil stesse trovando pane per i suoi denti, ma non poteva intervenire; la Confindustria invece temeva la palese voglia di Marchionne di far da sé sulle relazioni industriali, e la temeva sia per timore di perdere un socio essenziale, comè poi accaduto, sia perché molte piccole imprese hanno in materia idee ben diverse dalla Fiat, che Confindustria è tenuta a contemperare con quelle dei big.
La svolta imprevedibile è arrivata a cavallo dellestate, quando gli accordi aziendali ottenuti (o estorti, a sentire la Fiom) da Marchionne sia a Pomigliano che a Mirafiori sono stati messi al centro di un attacco giudiziario da parte delle tute blu della Cgil, forti della normativa in vigore, che rende impugnabili i contratti aziendali che deroghino alle clausole previste da quelli nazionali. Di fronte a questo stato di cose, Sacconi e il governo si sono mobilitati e si sono schierati con Marchionne, infilando – anche un po a sproposito – nella manovra finanziaria demergenza di agosto quellarticolo 8 che, appunto, dava molta più forza di prima ai contratti aziendali.
Ed è qui che è scoppiato limprevedibile: la Confindustria ha scelto la pace sindacale, e la conferma della prevalenza dei contratti nazionali reclamata da una parte dei suoi associati piccoli, incapaci di trattare da soli col sindacato in chiave migliorativa, rispetto allappoggio alla linea Fiat, pur benedetta dal governo. Diciamo, per capirci, che la Confindustria ha fatto qualcosa di sinistra. E ha firmato un protocollo dintesa con i sindacati che ha vanificato una norma di destra varata da un governo di destra! E Marchionne ha subito reagito, uscendosene ufficialmente – comera peraltro atteso e preannunciato – da unassociazione che non ama e che non stima, come del resto non ama e non stima lItalia.
Ed è qui che le strade di Marchionne con la sua Fiat e della Marcegaglia divergono definitivamente. Già, perché il manager italoamericano guarda solo allAmerica e al mondo, e tende o tenderà sempre di più a marginalizzare lItalia, sia come mercato che come sede produttiva. Farà né più né meno quel che sarà economicamente utile fare allazienda.Punto.
Il nuovo attivismo politico della Marcegaglia, occasionalmente sul fronte dellopposizione, fa invece riscontro con quello dei vari Montezemolo e Della Valle e dei tanti altri imprenditori che manifestano sempre di più una forte voglia di politica. Ma di una politica di destra o di sinistra? Non si capisce, e questo fa specie: perché limprenditore di sinistra è come lornitorinco, è un animale raro, uneccezione alla regola. Imprenditoria fa rima con competizione e meritocrazia, la sinistra è solidaristica e regolatrice. Montezemolo parlerà alla destra della base elettorale italiana, proponendosi come nuovo Berlusconi? O ammiccherà anche alla borghesia intellettuale, orfana di una convincente sinistra di governo? E Della Valle lavora in proprio, per Montezemolo o per nessuno e si è limitato a uno sfogo senza seguiti, con quella sua strana pagina-editto pubblicata a pagamento sui maggiori quotidiani?
La Confindustria senza Fiat conterrà i danni o perderà altri pezzi, fino al punto di perdere se stessa, come profetizzano i nemici di Marcegaglia? E perché, poi, rompere adesso, quando tra otto mesi la signora dellacciaio sarà tornata in altoforno?
No, da questa storia più che interrogativi senza risposta per ora non si estraggono, come del resto da tutta questinfinita e faticosissima transizione italiana.
A chi giova il divorzio tra Fiat e Confindustria?
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