• sabato , 23 Novembre 2024

Una storia esemplare:ecco come la finanza distrugge un’impresa

Se cercate una storia emblematica per capire come funziona il capitalismo finanziario e scoprire chi ci guadagna e chi ci perde, quella di Seat è perfetta. Una bella azienda, monopolista in Italia nel business delle Pagine Gialle, che ha arricchito alcuni in maniera smisurata e che ancora oggi avrebbe la possibilità di camminare sulle sue gambe se il capitalismo finanziario non l’avesse spremuta e riempita di debiti.
Ma cominciamo dall’inizio, e cioè dal novembre del ’97, quattordici anni fa, quando la finanziaria lussemburghese Otto compra dal Tesoro, che privatizza per fare cassa e ridurre il debito in vista dell’ingresso dell’Italia nell’Euro, il 61,27 per cento della società per mille 580 miliardi delle vecchie lire, impiegando 450 di capitale proprio e ricorrendo per il resto al debito. Dietro la Otto ci sono il fondo chiuso Investitori Associati, la Comit, la de Agostini e, con quote minori, Bain Capital, Bc Partners, AbnAmro e Sofipa. A Guidare Seat viene chiamato Lorenzo Pellicioli che in breve tempo la rilancia e, dopo alcune operazioni di razionalizzazione della catena di controllo, già nel ’99 è in grado di distribuire un dividendo straordinario di 2 mila 38 miliardi di lire, mille 243 dei quali vanno agli azionisti della Otto. La quale, sempre nel ’99, colloca sul mercato l’11 per cento delle azioni Seat (mantenendo quindi poco più del 50 per cento capitale) e incassa altri 940 miliardi. Nel 2000 la gallina dalle uova d’oro consente un secondo dividendo straordinario, questa volta di mille 123 miliardi, 600 dei quali vanno alla Otto. Grazie ai due dividendi straordinari e alla vendita di una parte delle azioni, i soci della Otto in soli tre anni, a fronte dei 450 miliardi di investimento, incassano 2 mila 783 miliardi.
L’affare è già eccellente, ma il meglio deve ancora venire. La bolla della new economomy è in pieno, Pellicioli è riuscito a dare l’idea che Seat sia in quel settore, le quotazioni vanno alle stelle e, ciliegina sulla torta, la Telecom di Colaninno si convince che mettere insieme Seat e Tin.it sia un affare. Tale da sborsare ben 13 mila miliardi, sempre delle vecchie lire, che vanno a riempire le casse dei signori della Otto: 13 mila miliardi a fronte di un investimento di 450, che si era già amplissimamente ripagato. Un capolavoro. Per la Otto naturalmente.
Meno per Telecom che nel 2003, a bolla internet scoppiata, rivende il 62 per cento della Seat (che aveva pagato 13 mila miliardi di lire) per 3,7 miliardi di euro.
Siamo nel 2003, e qui comincia la seconda e ancora più illuminante parte della storia. Chi sono i compratori? In buona parte gli stessi che tre anni prima avevano venduto al doppio: Investitori Associati, Bc Partners, più Cvc e Permira. Questi fondi di private equity non pagano mettendoci risorse proprie ma indebitandosi e, memori delle gloriose operazioni degli anni precedenti provano a ripercorrere la stessa strada. Seat non ha più dentro tanto grasso da distribuire superdividendi straordinari, ma la strada è semplice: si indebita la società per 3 miliardi (di euro) che vengono prontamente girati agli azionisti con un dividendo straordinario di 3,6 miliardi di euro, 2,2 dei quali a quelli di controllo, che poi vendono sul mercato la quota in eccesso rispetto al 50 per cento e rientrano così di quasi tutto l’investimento effettuato per acquistarla. Si chiama leverage buy out, ma questa volta, a differenza di quella precedente, lo schema non funziona. Adesso vedremo perché.
A fornire quei tre miliardi alla Seat sono la Royal Bank of Scotland e gli incauti obbligazionisti che sottoscrivono un prestito obbligazionario battezzato chissà perché Lighthouse di un miliardo e 300 milioni remunerato all’8 per cento, altre banche fanno il resto. Quel prestito obbligazionario è interessante perché, tra le varie caratteristiche, ne ha una inusuale: i sottoscrittori non hanno alcuna prelazione sui beni della società in caso di fallimento, neanche in secondo grado, ovvero dopo le banche. Non è una caratteristica irrilevante, e il perché lo stiamo scoprendo in questi giorni.
Ma andiamo con ordine. Oberata da un indebitamento contratto non per sviluppare l’azienda ma per ridare i soldi ai suoi azionisti la Seat comincia a fare fatica. Una serie di scelte manageriali fa il resto. L’amministratore delegato Luca Majocchi, sottratto a Unicredit con un contratto molto generoso, vuol fare della Seat la regina europea delle pagine gialle. Si lancia sul mercato turco investendo alcune decine di milioni di euro, acquista Wer Liefert Was in Germania per 140 milioni di euro (che dopo qualche anno rivende a 40), fa operazioni nel Regno Unito e in Francia. Peccato che le pagine gialle di carta, nell’epoca di internet, siano già in chiaro declino. Il cda di Seat di questo declino non si accorge, salvo varare un (piccolo) aumento di capitale da 200 milioni per tenerla l’azienda a galla.
Ad accorgersene è il successore di Majocchi, Alberto Cappellini, che in breve tempo taglia i costi di oltre 100 milioni, chiude le operazioni in Turchia, rimette in piedi operativamente la società. Il problema continua ad essere il debito. Per raffreddare la pressione delle banche, alle prese con la crisi finanziaria globale, viene emesso un prestito subordinato da 700 milioni a un tasso del 10 per cento e scadenza 2017 che, nuova anomalia, viene definito come “senior” rispetto al precedente Lighthouse. I 700 milioni finiscono alle banche del consorzio Rbs, sostituendo così indebitamento vecchio meno costoso con uno nuovo più costoso.
Seat funziona, ma il peso di 2,6 miliardi di debiti (fatti, ricordiamolo, per ripagare chi l’aveva comprata) è diventato troppo alto per lei. La settimana scorsa decide di non pagare le cedole agli obbligazionisti Lighthouse e subito il suo rating precipita.
Siamo all’epilogo della storia, con tre possibilità davanti. La prima è dare corso ad un piano, arrivato nei giorni scorsi sul tavolo del cda, che prevede la conversione di 1200 dei 1300 milioni delle obbligazioni Lighthouse in azioni, riducendo così il debito di quasi la metà; un allungamento delle scadenze dei debiti bancari; la riduzione della quota dei vecchi azionisti al 10 per cento. Con il debito così ridotto Seat potrebbe continuare ad operare e superare in bonis l’attuale fase di stallo.
La seconda è la proposta che piace di più ai fondi azionisti, è stata elaborata dalla Goldman Sachs e prevede l’azzeramento dei crediti degli obbligazionisti Lighthouse (utilizzando quella particolarità di cui sopra), che quindi si troverebbero con nulla in mano; il mantenimento del controllo della società ai vecchi azionisti; una iniezione di cassa di 100200 milioni che andrebbero a ridurre marginalmente il debito con le banche. Nel caso venisse scelta questa soluzione si può ipotizzare una furibonda reazione degli obbligazionisti, azioni legali a non finire, il probabile blocco operativo dell’azienda.
La terza possibilità, se azionisti e creditori non dovessero trovare un accordo, è portare i libri in Tribunale, con conseguenze prevedibili sul futuro dell’azienda e delle circa 5 mila persone che direttamente o indirettamente lavorano per essa. Un non piccolo monumento alle sorti gloriose e progressive del capitalismo finanziario.

Fonte: Repubblica 7 novembre 2011

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