• venerdì , 18 Ottobre 2024

Quel filo sottile tra incentivi, ricerca e crescita

Plauso al ministro Passera, che punta a riordinare entro giugno le decine di norme che regolano la (troppo) complessa macchina degli incentivi fiscali e finanziari pubblici alle imprese. Dai primi resoconti del MISE emerge un trasferimento complessivo di risorse di quasi 46 miliardi di euro nei sei anni 2005-2010, originati da 866 agevolazioni attive, di cui 51 nazionali e ben 815 su base regionale. Altri 15 miliardi circa sono da computare come fondi di garanzia pubblici. Circa il 44% degli incentivi è stato rivolto a “Innovazione ricerca e sviluppo”, in lieve aumento rispetto al 2003-2008 (Relazione MISE e Rapporto MET 2009), periodo che aveva visto una ancor più esasperata frammentazione degli interventi, con 91 forme di incentivi nazionali e 1307 regionali, questi ultimi pesando quasi il 29% sull’esborso totale di circa 36 miliardi.
Vi sono diversi nodi da risolvere per accrescere la funzionalità e l’efficacia del sostegno pubblico all’innovazione delle imprese. Un primo passo positivo è già stato fatto riproponendo lo strumento del credito d’imposta sulle spese di Ricerca e Sviluppo su un orizzonte triennale (anche se sarebbe assai meglio permanente) e senza il penoso gioco d’azzardo del “click day” (che in pochi secondi esauriva la lista dei beneficiati lasciando all’asciutto gli altri). Resta purtroppo una penuria di risorse finanziarie disponibili, che imporrebbe un limite di 450.000 euro al bonus fiscale annuale su IRES e IRAP della singola impresa (30% di un tetto massimo di spesa di 1,5 milioni di euro). Siamo lontani dagli sgravi fiscali sulla R&S di cui beneficiano i nostri concorrenti francesi e tedeschi. Certamente verrà così garantito l’accesso a tali agevolazioni da parte di molte imprese medio-piccole, ma si tende a dimenticare che in molti casi sono gli investimenti innovativi delle imprese grandi e medio-grandi a trascinare un virtuoso indotto dei propri fornitori di minori dimensioni, costretti ad affinare qualità e contenuto tecnologico della propria offerta, in tal modo migliorando la propria stessa capacità di affermarsi sui mercati internazionali.
La dispersione a pioggia, tipica degli incentivi puramente automatici, è plausibilmente una delle maggiori cause che spiegano l’efficacia assai deludente di queste misure, perfino dei crediti d’imposta sulle spese di ricerca, quale emerge da un numero crescente di verifiche econometriche su campioni rappresentativi di imprese (Banca d’Italia, Politecnico di Milano) confrontando investimenti, occupazione e produttività di imprese beneficiarie e non beneficiarie.
Il governo fatica forse a condividere quanto è ormai chiaro in quasi tutti i maggiori paesi europei (per non parlare di America e Asia): la necessità che, accanto ad una buona base di incentivi automatici, di supporti “orizzontali” all’innovazione e di regole a difesa della concorrenza, serve disporre di pochi grandi programmi nazionali di sviluppo tecnologico, fortemente selettivi nell’identificazione delle imprese partecipanti e delle connesse potenzialità di vantaggio competitivo del paese nel suo complesso. Tali programmi non scaturiscono naturalmente dai tavoli dei ministeri, ma da accurati processi istruttori condotti da esperti indipendenti in sintonia con esperti ministeriali e soprattutto in partnership corresponsabile con la parte più avanzata del sistema manifatturiero e di servizi. I programmi agiscono da catalizzatori di reti di imprese grandi medie e piccole, disposte a valorizzare le proprie eccellenze tecnico-scientifiche in un gioco di squadra, in cui lo Stato o l’ente locale eroga un significativo co-finanziamento e garantisce un continuo severo monitoraggio indipendente sullo stato di avanzamento e sui primi risultati di successo commerciale.
Se tutto ciò vi evoca il nome di “Industria 2015” non avete torto, ma un suo rilancio che corregga gli errori procedurali che negli ultimi tre anni l’hanno quasi affossato è ancora possibile.

Fonte: Sole 24 Ore del 24 aprile 2012

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