L’inchiesta svolta nei giorni scorsi da questo giornale ha documentato un’ulteriore dimensione della crisi di liquidità in cui versano le imprese. Ai problemi derivanti dalla restrizione del credito e dall’accumulo di debiti della Pa verso fornitori si aggiunge ora il ritardo nei rimborsi dei crediti fiscali. Il governo lo ha riconosciuto in modo trasparente nella risposta a una interrogazione parlamentare relativa ai rimborsi Iva del 2010. Al 31 gennaio scorso risultavano accolte solo 23.416 domande di rimborso su 62.211 per un importo erogato pari a meno di 3 miliardi su un totale richiesto di 8,6 miliardi.
La risposta del governo si conclude con una frase che val la pena di citare: «In conformità al piano di accelerazione avviato dall’Agenzia delle Entrate, gli importi relativi alle restanti richieste, qualora accolte, verranno erogati nel corso del 2012 tenuto conto della effettiva disponibilità finanziaria». Dunque oltre 5 miliardi di crediti relativi al solo 2010 verranno erogati con due anni di ritardo e solo se lo Stato avrà le risorse per farlo. Questa è la situazione di fatto. Una situazione grave, come confermano i dati della Ragioneria sulle erogazioni per rimborsi fiscali. Fra il 2009 e il 2011 le erogazioni sono scese da 8,1 miliardi di euro a 5,9. Nel primo trimestre del 2012, esse sono state pari a 891 milioni, meno della metà che nel primo trimestre del 2011 e del 2010. Per quanto incerta possa essere la base di riferimento dei rimborsi e il suo andamento stagionale, non possono esservi molti dubbi circa la fondatezza delle denuncie fatte da molte imprese negli ultimi mesi. Il problema è particolarmente grave per le imprese che hanno un’alta quota di fatturato all’estero per le quali il ritardo si configura come una vera e propria tassa sulle esportazioni. Riguarda anche tutte quelle imprese, ad esempio nel settore agroalimentare, i cui acquisti sono gravati da un’aliquota Iva maggiore di quella che si applica alle vendite.
È evidente che occorre un piano per far fronte alle richieste. Così come occorre mettere fine ai ritardi nei pagamenti verso fornitori, come previsto dalla Direttiva Europea, e approntare un piano per far fronte ai debiti pregressi. Debiti che, secondo la Corte dei Conti, hanno assunto caratteri e dimensioni di vera e propria patologia, comunque sconosciuti negli altri principali Paesi europei.
Un sollievo importante può venire da un accordo con il sistema bancario per facilitare lo sconto dei crediti delle imprese. Ma si tratterebbe di un sollievo temporaneo se lo Stato continuasse a non pagare. L’obiezione è nota. Non ci sono i soldi, l’Italia non può permettersi di mancare gli obiettivi di finanza pubblica concordati con l’Unione Europea. Questo è sicuramente vero, ma il modo giusto di affrontare la sfida non può essere quello di stritolare le imprese causandone vere e proprie crisi di liquidità e spesso il fallimento. In questo modo la crisi dell’economia si avvita su se stessa e comunque nessun problema strutturale viene risolto, dal momento che prima o poi i pagamenti devono essere fatti. Tanto più che questi problemi si aggiungono a quelli prodotti da uno straordinario aumento della pressione fiscale, dal 42,5% del Pil nel 2011 al 45,1 nel 2012 e ancor di più, stando ai documenti ufficiali, nei due anni successivi.
Diventa davvero indispensabile trovare una via d’uscita per allentare la stretta di liquidità sulle imprese nell’immediato e per dare una prospettiva di riduzione della pressione fiscale nel medio termine. Nei giorni scorsi il governo è tornato a prospettare forti contenimenti di spesa ad esito della cosiddetta spending review. Non è una via facile, come lamenta il ministro Giarda, ma è una via obbligata. Per riuscire a percorrerla occorre ritrovare lo “spirito di dicembre”, quello che nelle prime settimane del governo Monti consentì di varare il decreto Salva Italia. Quelle decisioni furono possibili perché c’era una percezione condivisa di pericolo. Oggi, purtroppo, la situazione reale dell’Italia non è molto diversa. Abbiamo certamente evitato il baratro che si prospettava a dicembre. Ma non siamo affatto fuori pericolo e lo spread sta sopra i 400 punti, come a ottobre dell’anno scorso. Lo scenario europeo, dopo le elezioni francesi, e quello internazionale sono pieni di incertezze e di rischi. In questa condizione, è comprensibile che si vogliano lanciare segnali tranquillizzanti all’opinione pubblica, ma non ha molto senso dire che la crisi è superata. La verità è che sono necessarie altre decisioni difficili e altre riforme strutturali della spesa, come strutturale è stata la riforma delle pensioni. Se si dice che la crisi è alle spalle è quasi inevitabile che il compito di conseguire gli obiettivi di bilancio finisca per ricadere sulla Ragioneria dello Stato che non può fare le riforme, ma ha il dovere di controllare giorno per giorno i flussi di cassa e non può farlo in altro modo se non rinviando i pagamenti. Il che non risolve i problemi di fondo del bilancio e aggrava la situazione dell’economia più di quanto non sarebbe necessario.
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