• venerdì , 22 Novembre 2024

Il distretto biomedicale va salvato, con il trasloco

Si può fare della politica industriale mentre la terra ti balla sotto i piedi? La risposta è: si deve. E infatti pur in piena emergenza cominciano in Emilia a circolare idee sul come mettere in sicurezza i distretti. Non esiste una soluzione unica, valida per tutti ma si tratta di costruire ipotesi cucite ad hoc su ogni singola zona di industrializzazione diffusa.
Sicuramente il caso più spinoso è quello di Mirandola e del distretto del bio-medicale, annoverato dal monitor di IntesaSanPaolo tra i venti poli ad alta tecnologia del Paese. Qui il sisma ha picchiato duro non solo sui settori high tech ma anche sul comparto meccanico e alimentare.
La nicchia del biomedicale però è la più preziosa, vale grosso modo 800 milioni di fatturato, le aziende dell’intera filiera sono un centinaio e danno lavoro all’incirca a 4 mila addetti. Il rischio che corre Mirandola è la diaspora delle 25-30 aziende capofila che non appartengono al novero delle tradizionali piccole imprese ma sono di taglia media e guidate da capitale composito. La tipologia comprende multinazionali, fondi di private equity e imprese di famiglia.
L’obiettivo di una politica industriale di territorio è quello di tenerle aggregate perché in questa maniera si sviluppi un valore aggiunto distrettuale fatto di formazione specializzata, di relazioni con le università, di capacità attrattiva per start up italiane o ancora per investitori esteri.
Se invece ciascuna azienda leader decide per conto suo che è troppo rischioso restare a Mirandola, giudicata geologicamente incompatibile con gli investimenti necessari a sviluppare il settore, il pericolo di impoverire l’intera Emilia è elevato.
Per questo motivo sarebbe meglio muoversi per tempo. Elaborare una proposta di trasloco che valga per tutti, le eccellenze e le piccole imprese di filiera, e che individui una zona attrezzata non eccessivamente lontana da Mirandola ma al tempo stesso vicina a uno dei tecnopoli voluti dalla Regione e/o a un centro di formazione universitaria.
Perché un’idea così abbia campo le autorità devono decidere alla svelta per evitare che nel frattempo non maturino o addirittura vengano implementate scelte univoche da parte delle singole imprese. Perdere il distretto del bio-medicale sarebbe una gravissima colpa e andrebbe ad aggiungersi al lungo cahier des doleances sulle occasioni mancate della tecnologia italiana che parte quasi sempre dal mito di Adriano Olivetti.
Per la ceramica e le piastrelle le cose stanno diversamente. Innanzitutto vanno prese le misure del problema. Il distretto ruota attorno a Sassuolo e Fiorano Modenese che fortunatamente sono distanti 65 kilometri dall’epicentro del terremoto, più vicino alla montagna. Esiste poi un appendice del distretto a Finale Emilia e S.Agostino ed è stata quella duramente colpita dal sisma ma le proporzioni sono 9 a 1.
Quindi sarebbe sbagliato tematizzare una riflessione di politica industriale dicendo di voler salvare il distretto della ceramica, il suo futuro non è in discussione. In questo caso si tratta invece di far leva proprio sulla flessibilità dei distretti e utilizzarla a mo’ di vaso comunicante.
Da sempre nel Sassolese il principio che ha uniformato le azioni degli imprenditori è stato quello della competizione-collaborazione, ovvero “ci si batte coltello fra i denti per affermare il proprio marchio ma non ci si nega alla cooperazione”, come sottolinea Franco Manfredini, presidente di Confindustria Ceramica.
E allora quale migliore occasione di mettere in opera la collaborazione se non quella di evitare di mettere fuori mercato quei colleghi imprenditori colpiti duramente dal sisma? Si potrebbe lavorare, e Manfredini conferma di volerci puntare, su una formula di produzione conto terzi.
Le aziende di Sassuolo che hanno una capacità di impianti non saturata lavorano in parte per quelle colpite dalla catastrofe sulla base dei profili produttivi di queste ultime. Risultato finale: alcuni marchi rimangono sul mercato nonostante i loro capannoni e le loro fabbriche siano ferme. E’ evidente che tutto ciò si può fare solo in via transitoria e nell’emergenza ma avrebbe il potere di testimoniare il valore dell’antropologia positiva emiliana e cementare la solidarietà tra imprenditori.
Spiega Manfredini: “il nostro settore non sta vivendo un momento straordinario. L’edilizia va male, case nuove non se ne fanno e quindi vendere piastrelle non è facilissimo ma come associazione vogliamo aiutare gli imprenditori colpiti a non perdere il rapporto con il mercato.
Prima si riprendono e prima torneremo ad essere concorrenti”.

Fonte: Corriere della Sera del 31 maggio 2012

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