• giovedì , 31 Ottobre 2024

Sos grandi opere

Ai bergamaschi che devono raggiungere l’aeroporto di Malpensa attraversando una delle aree più intasate della Padania, forse nessuno ha detto, prima del voto, che la Pedemontana Lombarda, che li avrebbe salvati dal traffico, rischia di non essere mai finita. E che la colpa è delle numerose amministrazioni locali (100 comuni, cinque province lombarde) che gestiscono il gigantesco progetto, passato da un costo di 2,3 miliardi a 5 miliardi grazie a mille aggiunte, incluse due tangenziali senza pedaggio che con il tracciato della strada non hanno alcun nesso, ma abbracciano due città strategiche per la nomenklatura locale, Varese e Como. Altrimenti forse in quel di Bergamo ci avrebbero pensato nell’urna.
Il caso della Pedemontana è forse il più clamoroso tra i flop che stanno affondando le grandi opere in Italia. Ma non è il solo: le grandi centrali d’appalto come le Ferrovie e l’Anas tengono il gas al minimo per problemi di spesa pubblica, e riducono l’avvio di nuovi lavori (per Fs il valore dei nuovi cantieri è passato dai 2,27 miliardi del 2011 a 1,2 nel 2012; l’Anas l’anno scorso ha avviato solo 24 nuove opere, per 1,8 miliardi, e dichiara di viaggiare a un quarto delle proprie possibilità). Ma a fare più spavento, perché si stanno trasformando in veri e propri crateri finanziari, sono i lavori in “project financing”, quelli in cui a fronte di un piccolo contributo pubblico a metterci i soldi sono i privati. «Tutte le opere con queste caratteristiche hanno difficoltà, quasi tutte rischiano il blocco», dice Oliviero Baccelli, esperto di trasporti e docente alla Bocconi: le banche una volta generose – Intesa in prima linea – tirano indietro la mano, insospettite dal crollo del traffico che ha cambiato tutto lo scenario dei futuri proventi. E quindi frenano la Pedemontana ma anche la Brebemi, la Tangenziale di Milano, la Cremona-Mantova, la Broni-Pavia-Mortara, sempre in Lombardia, mentre avanza tra le perplessità la Genova-Voltri, 3 miliardi di lavori nel difficile territorio ligure, opera di Autostrade per l’Italia.
Perché il grosso dei lavori oggi in corso sono grandi arterie: strade, ferrovie e metropolitane. Nel Programma delle infrastrutture strategiche, le strade rappresentano il 46 per cento del totale dei costi, le ferrovie il 39, mentre opere simbolo su cui si concentrano gran parte dell’attenzione e delle polemiche – come il Mose o il Ponte sullo Stretto – pesano la prima per solo l’1,5 per cento, la seconda, peraltro ormai affondata, per il 2,3. Certo, dal Programma alla sua realizzazione ce ne corre. Tant’è vero che delle mirabolanti promesse della legge Obiettivo, vecchia di 12 anni, poco si è realizzato. Secondo l’ultimo censimento, fatto in novembre dal Cresme con il Servizio studi della Camera dei deputati, su 390 opere per 374 miliardi a fine dicembre scorso ne sono state ultimate 41. Spesa, 7 miliardi. Ripetiamo: 7 miliardi in oltre 10 anni per le opere strategiche.
Una goccia nel mare, quando la spesa pubblica che ogni anno serve a pagare forniture e servizi è sugli 80 miliardi. «La legge Obiettivo ormai è una fotografia sfuocata, tra opere mai fatte e altre impantanate», ironizza Federico Titomanlio, segretario generale dell’Igi, che riunisce la grandi imprese di costruzioni: «Se non ci fosse stata la legge, quei 7 miliardi di lavori li avremmo fatti lo stesso». «È vero che di soldi ce ne sono pochi, e molte risorse sono state sprecate », rincara Michele Pizzarotti, vicepresidente dell’impresa di famiglia, «ma c’è da chiedersi perché oggi Obama, per rilanciare l’economia, punti proprio sulle grandi infrastrutture». Da noi, invece, le suddette infrastrutture sono ormai parte del problema-paese perché vanno loro stesse puntellate da interventi di emergenza, insomma salvate.
Il vice ministro alle Infrastrutture Mario Ciaccia ha ottenuto che il Cipe approvasse, in articulo mortis del governo Monti, una serie di sgravi fiscali per le grandi opere (quelle oltre i 500 milioni di euro) fatte in project financing e classificate nella Legge Obiettivo. Varrà per le opere ancora da affidare e per quelle in corso ma in cui è necessario «ripristinare l’equilibrio del piano economico e finanziario»: in pratica si potrà ottenere lo sconto di Iva, Ires e Irap anno dopo anno secondo un piano prestabilito, al posto del contributo pubblico “cash” e subito. Essendo equivalente appunto a un contributo pubblico, non potrà andare oltre il 50 per cento del costo dell’opera, che è comunque una bella percentuale e potrebbe servire appunto a riavviare la Pedemontana Lombarda, e anche la Tangenziale di Milano (1,8 miliardi), e dare ossigeno anche alla costosissima autostrada Orte-Venezia (9 miliardi circa).
Ma i costruttori, persone concrete, sanno che per tenere in piedi i cantieri servono soldi subito. La Brebemi , 62 km di autostrada tra Brescia e Milano, avviata nel 2001 e oggi arrivata a un costo totale di 2,2 miliardi, doveva essere la prima autostrada completamente privata. Oggi s’è impantanata in un miliardo e 600 mila euro di debito, ma attende fiduciosa l’arrivo del cavaliere bianco. Che si è materializzato nella Cassa depositi e prestiti con un finanziamento da 760 milioni (più un ulteriore intervento della Bei). Il closing dovrebbe arrivare a giorni.
La Cassa si sta trasformando nel mago della lampada di Aladino un po’ per tutti. E infatti ammette di essere stata tirata dentro quasi tutte le operazioni di ristrutturazione del finanziamento delle grandi infrastrutture (vedi tabella in pagina), ma ammette anche di fare una fatica immane di fronte alla scarsa qualità degli studi di fattibilità delle stesse, alle lungaggini delle procedure, al gonfiarsi degli importi delle opere. Soprattuto perché i suoi soldi li presta, e quindi devono rendere, ma se l’opera costa troppo o è nata male, il rischio di un bagno aumenta. Quindi ci va con i piedi di piombo.
E fa bene. Meno di un anno fa, all’inizio di maggio 2012, il governatore lombardo Roberto Formigoni presenziava in notturna alla posa della prima trave del ponte tra la Pedemontana lombarda e la Milano-Varese e annunciava: «Tutto procede entro le tempistiche, la nuova autostrada sarà pronta entro il 2015, per l’Expo». Adesso la Pedemontana è ferma al primo lotto con uno stato di avanzamento del 7 per cento. E l’Impregilo, che aveva vinto la gara, annuncia che non ce la fa a rispettare l’impegno preso sulla propria partecipazione al finanziamentoponte (elemento essenziale per la vittoria in gara), perché le banche che glielo avevano promesso non lo vogliono più dare.
E allora? Non resta che bussare a Pantalone. Impregilo quindi chiede allo Stato di rimodulare dai 15 anni previsti a nove la sua quota di finanziamento pubblico, in pratica di anticiparlo. In sostanza, chiede una soluzione finanziaria più vantaggiosa, che però potrebbe, se concessa a posteriori, far scattare i ricorsi delle imprese escluse, che avrebbero buone ragioni per reclamare e chiedere di rimettere a gare il tutto. La spinosa questione è passata nelle mani dell’Authority degli appalti pubblici, e non è stata la sola a rendere necessario un nuovo esame.
Nel mirino sono finite anche le Metropolitane di Milano e di Roma: la prima per aver rivisto il business plan (cioè il livello delle tariffe) in corso di realizzazione; la seconda perché «non c’è stato un corretto trasferimento del rischio all’operatore economico privato». Grane che non mancano anche all’Anas, che attribuisce alle controversie amministrative e alla debolezza del sistema delle imprese le ragioni principali delle lungaggini che affliggono le nostre opere pubbliche. Ne sa qualcosa la nuova Salerno- Reggio Calabria: contro l’aggiudicazione del terzo “macrolotto”, nel 2009, ha fatto ricorso la seconda classificata, che nel 2011 si è vista aggiudicare l’opera, aprendo la strada al ricorso della terza classificata, che il Consiglio di Stato dovrà esaminare a metà marzo. Ma è quasi una passeggiata, se si considera che in 177 cantieri Anas, di cui la metà proprio sulla Salerno-Reggio, le imprese al lavoro sono state interdette per ragioni antimafia. E tutto è ricominciato daccapo.

Fonte: L'Espresso del 7 marzo 2013

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