• sabato , 23 Novembre 2024

L’auto tedesca sfonda l’euroserra

La Merkel convince l’Ue a riaprire un’intesa sulle emissioni di Co2 che costa cara ai chi produce auto di lusso. I 28 si piegano all’industria germanica. La Cdu raccoglie lodi e non solo. L’Italia prova a fare muro, ma non basta.
Non funziona davvero l’Europa quando a testa bassa si piega agli interessi industriali di un singolo paese, per di più in circostanze non proprio chiarissime. E’ successo lunedì, come purtroppo stava diventando prevedibile da diversi giorni. Il Consiglio dei ministri dell’Ambiente dell’Ue ha deciso di riaprire la decisione sul taglio delle emissioni di Co2 dei veicoli commerciali perché lo ha chiesto la Germania, che doveva ridurre i costi imposti ai suoi costruttori (che producono aiuto di grande cilindrata) e che, a questo fine, è riuscita a coagulare i consensi necessari per tornare a discutere di un provvedimento che era dato per fatto. Alcuni paesi, fra cui Italia e Danimarca, si sono opposti apertamente. Ma alla fine non c’è stato nulla da fare. Alemania rules.
Riassuntino. Il 24 giugno scorso, Consiglio (gli stati), la Commissione e Parlamento Ue hanno raggiunto un’intesa sul principio di tagliare sino a 95 grammi per chilometro nel 2020 il biossido di carbonio che esce dagli scarichi delle auto europee. Era lecito attendersi che il dossier fosse sigillato in fretta, invece la presidenza lituana ha accettato che se ne discutesse ancora. Non era sicura che ci fosse consenso. Berlino stava reclutando forze per una mossa destinata a metter a rischio il sacrosanto principio secondo cui chi inquina di più paga di più.
Il Coreper, cioè il comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue dei ventotto stati membri, non è riuscito a dirimere la questione che è finita diritta sul tavolo dei ministri verdi. L’Italia ha chiesto la conta, ha cercato di far venire fuori le ambiguità, soprattutto quelle di chi chiede all’Europa di avere ambizione nella lotta al cambiamento climatico e poi si preoccupa di quanto questo grava sui conti dei suoi costruttori.
Lunedì pomeriggio a Lussemburgo, tutti i ministri hanno preso la parola e – intervento dopo intervento – si è capito in fretta che Berlino l’aveva spuntata.
Ha cominciato proprio il tedesco. “In molti paesi, non solo in Germania, l’industria dell’auto contribuisce notevolmente al pil e al benessere economico. Dobbiamo far si che l’industria europea e tedesca diventino un esempio senza il vincolo di incertezze giuridiche o di mercato. Dobbiamo essere costruttivi. I nostri traguardi saranno ambiziosi se le nostre proposte saranno sostenute da tutti. Credo che ce la faremo nelle prossime settimane. Oggi non dobbiamo chiudere questo fascicolo”.
I britannici si sono accodati. Subito. “Sembra chiaro che alcuni dei presenti abbiano autentiche preoccupazioni. Noi difendiamo la crescita verde. Ma la lotta al cambiamento climatico si può fare solo con l’assenso di industria. Essenziale che le proposte siano davvero le ambiziosa. (Per questo occorrono) piccoli cambiamenti del pacchetto”.
L’Italia, con il ministro Andrea Orlando, si è messa di traverso. Difendeva la sostanza giuridica di un accordo chiuso. La credibilità delle stesse regole europee. “ Dopo 4 mesi dall’intesa, un’intesa che metteva insieme realismo e ambizione, è arrivato il momento di dare seguito agli impegni assunti. E’ indispensabile per gli obiettivi di riduzione che ci siamo fissati mantenere un livello elevato di ambizione. Non si può cambiare fra mattino e pomeriggio. Non è questione solo di contenuti, ma anche di rispetto delle procedure. Vorremmo procedere alla finalizzazione e arrivare ad autorizzare la presidenza lituana a confermare gli impegni . Capiamo le preoccupazioni di alcuni stati, sono state condivise e accettate anche dall’Italia. Se alcuni paesi non sono in grado di mantenere impegni presi, sarebbe meglio dirlo in modo chiaro, assumendosi la responsabilità di un eventuale slittamento e della seconda lettura dell’intesa”.
La Danimarca è d’accordo. L’Ungheria no, sta coi tedeschi . La Francia è ambigua, chiede un’intesa ma lascia aperta la porta ai bisogni tedeschi. Come la Spagna, mentre la Svezia parla come la Danimarca, in favore dell’intesa di giugno. Non basta. Cechi, polacchi, estoni, belgi, portoghesi, finlandesi, la pensano diversamente. Fanno eccezione i bulgari. Loro si schierano con italiani e danesi. Il match è andato. Qualcuno farà notare, solo con parziale malizia, che tutti quelli che hanno sposato la causa tedesca ospitano in casa stabilimenti di Audi, Vw o Bmw. Strano ma vero.
Il ministro Orlando, sostenuto dagli esperti della sua delegazione, le ha provate tutte. Inutile. Le azioni si pesano, oltre che contarsi. “Un’intesa che non ci lascia soddisfatti”, ha detto. Un caso che i no siano tutti legati alla presenza industria tedesca? “Forse non sono solo speculazioni”. Adesso c’è un mandato. La volontà è quello di non snaturare troppo l’accordo di giugno che, beninteso, rappresentava già un costo non indifferente per tutti i costruttori, di piccole o grandi cilindrate che fossero.
Molto pragmatica, la commissaria Ue per il cambiamento climatico, Connie Hedegaard, ha stigmatizzato il comportamento di chi pensava che a giungo andasse tutto bene e poi ha cambiato idea. “Dobbiamo esplorare la possibilità di venire in contro agli stati membri, senza cambiare l’ambizione di fondo e restando fermi nel voler rispettare l’impegno di giugno”. Risultato. Adesso si cerca di trovare una soluzione accomodi le esigenze delle quattroruote tedesche e non snaturi i sogni di fermare l’effetto serra. Salveremo capre e cavoli. Ma non la faccia, probabilmente. Quella dei ministri che hanno difeso la linea tedesca con lo sguardo basso. Quella dell’Europa che si inchina allo strapotere del singoli per ragioni commerciali.
PS. Il nove ottobre la Cdu di Angela Merkel ha ricevuto una donazione di 690 mila euro da tre grandi azionisti della casa automobilistica Bmw: Johanna Quandt e i figli Stefan Quandt e Susanne Klatten. A pensare male si fa peccato, ma…. Come nel caso delle 180 Bmw date in uso alla presidenza lituana.

Fonte: La stampa del 16 ottobre 2013

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