La politica energetica (o, meglio, la “non politica” energetica italiana) ha condottoa risultati disastrosi, soprattutto per quanto riguarda i costi, soggetti a gravami crescenti. Sembra quasi che quando si tratta di singole voci, anche se di dimensioni macro economiche, esse non vengano analizzatee quindi contabilizzate assieme alle altre.Di conseguenza, non sono soggette a spending review e a piani di riduzione. Mi baso su qualche estrapolazione tratta da dati Assoelettrica che comprovano un calo dei consumi nel primo semestre 2013 sul 2012 del 3% (in TWh). Ebbene il prezzo medio dell’elettricità in borsa in euro/MWh per l’Italia è di 77,58 euro; per la Francia di 47,28; per la Germania di 45,07; per la Scandinavia di 38,50, con un notevole scarto fra noi e questi Paesi.
Per i carburanti (benzina, gasolio) essi costano alla pompa circa il 15% in più della media europea. I dati pubblicati da Eurostat (giugno 2013) confermano il dire comune che le famiglie italiane sono le più tartassate a livello europeo per i costi energetici, i quali si riflettono poi su tutti i beni di consumo. Stante alla esperienza di altri settori le liberalizzazioni dovrebbero aver portato ovunquea una riduzione delle bollette, al miglioramento del servizio e ad una maggiore efficienza. Nel mercato energetico, invece a fronte di una prolungata crisi dei consumi e di una sovraccapacità di offerta (sia di elettricità che di gas) i prezzi nelle fasce tutelate di consumo si sono ridotti ma non sono calati nella media nazionale, per gli oneri impropri di sistema e le tasse che si sono aggiunti nella bolletta, compresa la inutile Robin Tax.
Negli ultimi dieci anni alcuni elementi sottolineano il fallimento di una mancata politica di programmazione energetica. I lavoratori nel settore (produzione/distribuzione elettricità, distribuzione gas) sono scesi da 200.000 a circa 80.000. La crisi non accenna ad invertirsi. La fermata di un gran numero di centrali ad olio combustibile, il ridotto esercizio delle centrali a gas, anche di quelle ad alto rendimento, la chiusura di molti impianti cogenerativi (negli stabilimenti industriali, raffinerie, cartiere, zuccherifici, ceramiche, tessili, ecc.) nonché la frenata nel settore delle rinnovabili incide sull’ulteriore fuoruscita di migliaia di addetti. Le modifiche introdotte al titolo quinto della Costituzione hanno provocato notevoli incertezze negli investimenti di settore. La politica dei sussidi ha comportato una serie di scandali nel fotovoltaico e nell’eolico. Oneri impropri, dal fondo di dismissione degli impianti nucleari ai rimborsi agli autotrasportatori, sono stati scaricati nelle bollette agli utenti.
Si può continuare ma questa volta ci fermiamo qui, richiamando solo un dato particolarmente emblematico: la nostra super capacità produttiva (è quasi senza pari, è tra le più alte al mondo) come percentuale differenziale tra gli impianti installati e quelli funzionanti. Basti ricordare che vi sono centrali pronte all’uso per 125.000 MW a fronte di una richiesta media giornaliera di circa 35.000-40.000. Ai più anziani questi dati rammentano le paradossali statistiche sovietiche che facevano sorridere gli economisti degli anni Trenta. Poi avevano qualche momento di dubbio quando leggevano, in calce a quelle cifre, lo slogan di Stalin: «Il socialismo è l’elettrificazione più il potere dei Soviet». Noi potremmo contrapporgli il documento del governo Monti sulla “Strategia Energetica Nazionale”, indubbiamente più innocuo. Stando infatti all’analisi di un gruppo di economisti del settore questa Sen rappresenta un documento di carattere generale e molto “accademico” in quanto presuppone scenari che non hanno alcuna possibilità sia di essere centrati sia di portare a una riduzione dei costi.
Lo scenario del mix per produrre elettricità nel 2020 con un incremento di 10 punti nelle rinnovabili ed un pari decremento dell’utilizzo del gas, non può infatti che portare ad un aumento del prezzo della bolletta.
Una indigestione di elettricita’
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