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I giovani talenti si richiamano con politiche mirate e giusti incentivi

Si parla sempre più dei giovani talenti italiani che per mancanza di prospettive, sfiducia, rassegnazione rinunciano a rientrare in Italia dopo un periodo di studi all’estero, dove spesso si distinguono per ottimi risultati e infatti ricevono offerte interessanti di lavoro. Il Rapporto “Italiani nel mondo” 2014 della Fondazione Migrantes segnala che l’Italia è quarta in Europa come numero di studenti in mobilità e che la forbice tra uscite ed entrate di cittadini italiani con l’estero si è ampliata vistosamente dal 2008 fino a raggiungere un saldo di 50.000 unità nel 2013. Sulle 82.000 unità in uscita nel 2013 due terzi sono laureati e diplomati, il 40 per cento origina nelle regioni del Nord.
Eppure diverse affiliate italiane di gruppi multinazionali cercano giovani laureati e diplomati di materie tecnico-scientifiche, in particolare ingegneri di cui apprezzano senza riserve le qualità: competenza tecnica combinata con flessibilità e creatività in dosi nettamente superiori a quelle dei loro pari grado tedeschi, francesi, inglesi, americani.
Allora che cosa manca per attrarre una migrazione di ritorno dei nostri giovani talenti, al di là dei noti aspetti negativi percepiti del “sistema paese” (inefficienza e opacità delle regole nella P.A., scarsa meritocrazia, corruzione e simili)? Grandi imprese innovative, che tipicamente cercano manodopera con titoli di studio superiori, in Italia sono ormai una rarità. Il nostro “quarto capitalismo” manifatturiero, che nella fascia da 10 a 249 addetti – come illustra una recente indagine di Nomisma – batte in produttività reale (valore aggiunto per addetto a parità dei poteri d’acquisto) addirittura quella delle sorelle tedesche, non basta ad assorbire la nostra offerta di laureati. Un elemento fondamentale è la grande frammentazione, e conseguente scarsità di “massa critica”, di imprenditorialità innovativa nei settori ad alto dinamismo tecnologico (industria e servizi), sia “high” che “medium tech” (Gianfelice Rocca, “Riaccendere i motori”, 2014) capaci di offrire prospettive occupazionali e retributive attraenti, meno precarie e di modesto profilo tecnologico e organizzativo.
Nel suo libro su “La nuova geografia del lavoro”, l’economista italiano docente a Berkeley Enrico Moretti ha sottolineato, attraverso molti esempi di regioni dinamiche e innovative negli USA (ma in Europa pensiamo a regioni come Baviera, Baden Württemberg, Rhône-Alpes, la stessa Lombardia) quanto importanti siano gli effetti di agglomerazione geografica dell’occupazione istruita e qualificata intorno a nuclei di aziende e centri di ricerca impegnati sulle frontiere delle medie e alte tecnologie. La presenza di una maggiore percentuale di laureati in una data area si accompagna a un livello medio più elevato delle retribuzioni dei diplomati, e più in generale della forza lavoro in quell’area, secondo un effetto noto nella letteratura economica come “esternalità del capitale umano”. E soprattutto l’agglomerazione territoriale di competenze tecnico-scientifiche richieste si autoalimenta, agendo come motore di sviluppo anche nei settori dei servizi tradizionali (commercio, trasporti, immobiliare ecc.), che sono quasi ovunque complementari delle attività a maggior contenuto di tecnologia e organizzazione manageriale. Saranno benvenute analisi empiriche come quella di Moretti su dati di aree urbane e locali in Italia e in Europa.
Pro memoria per una nostra (buona) politica industriale: i giovani talenti, emigrati per vedersi riconoscere le proprie capacità e aspirazioni, possono essere incentivati a rientrare nella misura in cui i tanto citati esperimenti di PPP (partnership pubblico-privato) non si disperdono in decine (centinaia) di cosiddetti parchi scientifico-tecnologici e incubatori di start-up quasi sempre di corto respiro, favorendo lo sviluppo di pochi ma robusti “ecosistemi innovativi” innestati sui maggiori vantaggi competitivi già esistenti in Italia e orientati al futuro (meccatronica, trasporti intelligenti, bio-nanotecnologie medicali e farmaceutiche, energie pulite, sicurezza alimentare e tanti altri). Non servono politiche industriali dirigiste, ma solo una migliore strumentazione dei molti incentivi nazionali e regionali allo sviluppo, un coordinamento tra ministeri (es. MISE-MIUR) e tra Regioni, una collaborazione non miope delle rappresentanze datoriali di settore e territorio.

Fonte: Il Sole 24 Ore - 6 novembe 2014

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