Retroscena I repubblicani, che pure hanno gettato le premesse per i disastri, ne trarranno vantaggio al voto di novembre
Fede nella tecnologia E’ venuta meno una delle credenze americane fondamentali: la fiducia cieca nella tecnologia
Dopo le banche che portano il mondo sull’ orlo dell’ abisso finanziario, i giganti petroliferi che provocano un’ apocalisse ecologica. E il governo della superpotenza mondiale, col suo presidente accusato di statalismo (quando non addirittura di socialismo), nudo nella sua totale impotenza: «commander-in-chief» di uno Stato senza capacità d’ intervento che non solo non è in grado di tappare il «maledetto buco», ma non ha nemmeno gli strumenti per ridurre l’ impatto dell’ onda nera né per misurare l’ entità dei danni, sulla superficie del mare e in profondità. E’ il paradosso incorporato nel dramma di quest’ America che – proprio mentre l’ Europa statalista paga la scarsa lungimiranza di governi che hanno creato sistemi di welfare tanto generosi quanto insostenibili – scopre che può essere suicida anche affidarsi ciecamente a giganti industriali che operano senza alcun controllo efficace, con le agenzie federali delegittimate, trattate come parcheggi di burocrati. L’ uomo-simbolo di questo dramma e dei paradossi che ci galleggiano dentro è il governatore della Louisiana, Bobby Jindal, bandiera degli arciconservatori che hanno meditato di farne un anti-Obama. Quando, all’ inizio del 2009, il presidente pronunciò il discorso di insediamento alla Casa Bianca, toccò a Jindal opporre, alla sua, la visione dei repubblicani: «No caro Barack, il futuro dell’ America non risiede nella forza del suo governo, ma nel cuore e nello spirito imprenditoriale dei suoi cittadini». Parole nobili, ma il disastro provocato dall’ esplosione della piattaforma petrolifera della BP trasforma oggi il repubblicano seguace dello «Stato minimo» in un governatore che ha disperatamente bisogno di un Stato in versione «extralarge»: protesta per la risposta «troppo lenta e troppo limitata» del governo federale, non sa che farsene dei 20 mila uomini e delle 1.300 imbarcazioni fin qui schierati. Vuole una barriera di isole artificiali per proteggere le spiagge della Louisiana. Un’ opera faraonica da realizzare trasportando quantità immani di terra e sabbia davanti a 270 chilometri di coste dello Stato. Obama non prova nemmeno a prendersi un’ amara rivincita dialettica: tace e cerca di soddisfare, almeno in parte, la richiesta di Jindal. L’ aspetto più curioso di questa situazione paradossale è che l’ «oil spill» rischia di travolgere non il governatore repubblicano, ma il presidente democratico e il suo partito alle prossime elezioni di mid-term: la loro popolarità è, infatti, spinta sempre più in basso dal malessere e dal risentimento di un’ America frustrata per l’ impatto della massiccia disoccupazione, per il salvataggio di Wall Street fatto a spese del contribuente e, ora, per il disastro del Golfo del Messico. Insomma i repubblicani, che con la «deregulation» ideologica di Reagan, la fiducia cieca nell’ autoregolamentazione del mercato e lo smantellamento dei controlli attuato nell’ era Bush, sono i maggiori responsabili delle crisi che oggi scuotono l’ America, sono anche il partito che trarrà maggiori benefici politici da questa situazione. Wall Street e petrolio che avvelena il mare sono cose molto diverse. Una crisi finanziaria provoca povertà, ma non uccide animali, non distrugge un intero ecosistema. Eppure nelle due crisi ci sono molti più punti di contatto di quanto sembri. Non solo l’ incapacità dello Stato di evitare comportamenti incoscienti – nelle trivellazioni come nell’ eccessiva esposizione delle banche -, ma anche la fiducia cieca nella tecnologia: quella degli algoritmi matematici che dovevano tenere gli operatori dei mercati al riparo dai grossi rischi, come quella delle perforazioni in mari sempre più profondi, dello sfruttamento di giacimenti dalle caratteristiche geologiche sempre più problematiche. E, poi, la scoperta che davanti ai problemi immani creati da queste grandi imprese, nemmeno lo Stato è in grado di offrire più un’ ultima rete di protezione: nel Golfo perché non ha tecnologie per operare in acque profonde, in finanza perché le dimensioni in gioco sono ormai immani. Il «meltdown» è stato evitato mettendo in gioco tutte le risorse possibili e ipotecando il futuro del Paese: salvataggi a spese dei contribuenti, moltiplicazione del debito pubblico, la Federal Reserve, tempio del dollaro, che diventa una sorta di «hedge fund». Di cartucce di riserva ne sono rimaste ben poche. E chissà che in futuro non scopriremo un’ altra similitudine: dopo le banche che fanno disastri ma non pagano col fallimento perché questo creerebbe un «effetto domino», magari scopriremo che anche i petrolieri sono «too big to fail». Oggi la Bp è alla gogna, ma l’ America e il mondo non possono fare a meno del greggio che la compagnia anglo-americana (e le sue «sorelle» che operano in modo del tutto simile) va a cercare in luoghi sempre più remoti e rischiosi. Massimo Gaggi RIPRODUZIONE RISERVATA La vicenda L’ incidente Il 20 aprile al largo delle coste della Louisiana esplode una piattaforma gestita dalla BP. Da allora dal buco in fondo al mare (1.500 metri) continua a fuoriuscire greggio. In poche settimane la marea nera arriva alle coste della Louisiana I tentativi Tre i tentativi falliti per tappare la falla. Il primo con una cupola d’ acciaio, il secondo con un siringone. E l’ ultimo, chiamato «Top kill»: 35.000 barili di liquidi e fango per bloccare il flusso di petrolio e poi cementare la falla
La marea nera accerchia anche la Casa Bianca Obama rischia di pagare per i fallimenti di tutti
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