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G20, il momento magico è passato

Il rischio è che questi vertici producano solo una rassicurante fotografia dell’esistente
Il rischio è che questi vertici producano solo una rassicurante fotografia dell’esistente
Una foto e una frase. La foto è quella rituale: i leader del mondo che salutano, un po’ impacciati, agitando la manina dopo qualche incertezza sul dispiegamento sui gradoni del palco. Il sovrano saudita non sembra soddisfatto di una posizione laterale in seconda fila, a fianco a Berlusconi.
Obama lo promuove in prima fila dove, di lato, si infila anche Sarkozy mentre la Merkel, nel suo fiammante abito rosso tra tanto grigio e tanto nero, non ha problemi a starsene nelle retrovie. La frase: «La ripresa è diseguale e fragile». Non c’era certo bisogno di venire fino al G-20 di Toronto e leggersi il solito, torrenziale, comunicato finale, per scoprirlo.Ma il fatto che abbiano sentito il bisogno di partire da questa considerazione, dà l’idea delle difficoltà in cui si sono trovati i protagonisti di un summit dal quale non è uscita alcuna novità significativa: il previsto impegno a dimezzare entro il 2013 i deficit pubblici (tema caro soprattutto agli europei), una dichiarazione generica sulla priorità da assegnare allo sviluppo dell’economia e dell’occupazione (che è la preoccupazione principale di Obama), mentre per le decisioni su banche e finanza bisognerà attendere il prossimo vertice, a Seul, a novembre. Non molto altro. Una foto, una frase. E un’ondata di arresti «preventivi» (quasi cinquecento «black bloc» sorpresi nel sonno nei dormitori universitari) per evitare che una nuova esplosione di atti vandalici, dopo quella di sabato, sottraesse i titoli di tg e quotidiani ai leader del mondo. Tra l’altro sarebbe stato uno smacco enorme per un Paese, il Canada, che ha speso quasi un miliardo di dollari (pari a un quinto degli stanziamenti del G-8 per i Paesi poveri) per garantire la sicurezza di questo vertice, dove ha schierato ben 19 mila poliziotti in assetto di guerra che, però, non avevano mai visto un candelotto lacrimogeno né un «guerrigliero urbano» in vita loro. La vera novità di Toronto, rispetto ai vertici precedenti, è, insomma, in quelle poche parole: «ripresa diseguale», la presa d’atto che l’unità d’intenti che si era manifestata a Londra e a Pittsburgh non c’è più. E questo non solo perché l’uscita dal clima di «allarme rosso» allenta i vincoli di disciplina: le diverse velocità delle economie— con l’Asia e l’America Latina che continuano a crescere rapidamente, l’Europa che ristagna e gli Usa che hanno imboccato la ripresa ma in una situazione instabile e con forti rischi di ricadute — creano forti divergenze d’interessi che rendono difficile raggiungere intese ben definite.
Il rischio, insomma, è che questi vertici, comunque utili come luogo di dialogo e di costruzione di rapporti confidenziali tra i vari leader, producano, agli occhi delle opinione pubbliche, solo una rassicurante fotografia dell’esistente: «Siamo qui, non litighiamo, facciamo il possibile per riprendere il cammino, ma non è facile». Si riparte da Toronto con un arrivederci a Seul a novembre e a Nizza tra un anno, ma anche con la sensazione che il «momento magico» delle larghe intese è passato; che si tornerà agli accordi bilaterali. Il G-8 dell’altro ieri l’ha addirittura formalizzato nel suo comunicato quando, sul commercio internazionale, ha ammesso lo stallo del «Doha Round» ed ha auspicato un’intensificazione degli accordi bilaterali. Che, più che promuovere, rischiano di distorcere il « free trade ». Ma anche il nuovo grande protagonista di questi vertici planetari, la Cina, si è mosso in modo da sottrarre al tavolo delle discussioni comuni i temi che più le stanno a cuore, a partire da quello della rivalutazione della sua moneta. Ha giocato d’anticipo annunciando una settimana fa una maggiore flessibilità sul cambio del suo renmimbi e qui a Toronto ha chiesto e ottenuto che il tema non fosse toccato dagli altri Paesi anche solo per esprimere apprezzamento per le scelte di Pechino. Obama si è adeguato, ma negli Usa molti, soprattutto al Congresso, dubitano che i cinesi vogliano davvero cambiare rotta in campo valutario. Per questo il presidente non ha sfidato Hu Jintao e, anzi, ha invitato il presidente (che ha accettato) a compiere una visita di Stato negli Stati Uniti per continuare a discutere dei temi cruciali per i due Paesi, ma al tempo stesso ha promesso agli americani che entro pochi mesi verificherà l’attuazione di questi nuovi impegni di Pechino. Obama è convinto di poter trovare un terreno di interessi comuni: se non è riuscito a trascinare l’intero G-20 sulla linea del prolungamento degli incentivi alla crescita, ha comunque raccolto il consenso di potenze come Giappone e Brasile. E ora può provare a cementare, almeno su questo terreno, anche il rapporto con la Cina. Quella di Hu sarà la terza visita di Stato alla Casa Bianca dell’era Obama, dopo quella dei presidenti di India e Messico. Anche qui, l’Europa può attendere.

Fonte: Corriere della Sera del 28 giugno 2010

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