I più sarcastici dicono che la riforma finanziaria approvata dal Congresso di Washington non è una torta di crema, ma la fotografia di una torta di crema. Per chi la vuole assaggiare c’è una bella differenza. In effetti le 2.319 pagine della legge Dodd-Frank dovranno ora essere impastate e cucinate varando norme secondarie ancora più complesse e talvolta più decisive del testo approvato: tecniche di applicazione, procedure operative e criteri di vigilanza. Sono addirittura 40 gli studi ancora da effettuare e affidati dalla legge a qualcuno dei 127 organi di sorveglianza.
Per chi sospetta che i problemi di controllo finanziario che hanno consentito alla crisi di maturare fossero più nella vigilanza che nella regolazione – cioè più nell’applicazione delle regole che nella loro natura – la nuova legge è per ora un guscio.Un buon guscio, ma con una crepa.
La legge ha cercato un equilibrio tra maggiore sicurezza del sistema e la cura per il funzionamento dei mercati. Questo equilibrio l’ha esposta a critiche da destra e da sinistra. Da destra si parla di controllo intrusivo del governo sul sistema finanziario e da sinistra di sudditanza verso le grandi banche e di scarsa incisività nel contrastare i business più speculativi. L’equilibrio è tuttavia proprio uno dei risultati a cui l’Amministrazione non voleva rinunciare in una fase di fragilità economica ancora grave.
Ciò che invece già ora nella riforma non c’è, e che fa parlare di opportunità mancata per migliorare il capitalismo, è un intervento significativo sulla piena trasparenza dei bilanci delle istituzioni finanziarie e sulla circolazione delle informazioni microeconomiche contenute. Questa è la crepa nella riforma. Non sarebbe necessario frantumare le banche o imporre costi al credito che freneranno marginalmente anche la crescita dell’economia, se chi vigila la finanza, dal livello micro a quello macro, ha una visione ben illuminata dei rischi. Si tratta di un errore di concezione che ora spetta a noi europei evitare nel nostro progetto di riforma finanziaria.
Dal punto di vista politico per il presidente Obama l’approvazione della riforma rappresenta certamente un’importante vittoria. Ma è anche la conferma che oggi riforme trasformative della società o del capitalismo non sono realisticamente possibili nemmeno per una personalità politica tanto suggestiva. La peggiore recessione dal dopoguerra, 8 milioni di posti di lavoro perduti e l’aumento del 40% del debito pubblico (o il suo raddoppio in prospettiva) erano sia il motivo per varare una riforma radicale, sia al tempo stesso la giustificazione per non farla. Il risultato della riforma è infatti caduto a metà, forse a due terzi, della strada da percorrere, ma molto lontano da un vero ridisegno del sistema finanziario. Non si possono evitare future crisi, connaturate al capitalismo, ma non si è riusciti a riequilibrare il rapporto tra finanza e produzione.
L’opportunità politica di varare la riforma era chiara: gli elettori americani non attribuiscono a Obama la responsabilità della crisi, bensì la sua gestione. E il punto di svolta nel gradimento del presidente era il gigantismo dei fondi pubblici a sostegno delle banche varati da Bush ma rinnovati dall’amministrazione nei mesi del 2009 in cui emergevano le nefandezze dei baronati di Wall Street. Da allora il timore del debito pubblico ha gettato un’ombra titanica sopra la Casa Bianca, diventando la trama della protesta popolare contro Washington alimentata dall’opposizione.
Oggi all’ennesima svolta della crisi, riaffiora la debolezza dell’economia americana. Una fase prolungata di crescita bassa non sembra evitabile ora che gli aiuti di emergenza all’economia si stanno esaurendo, i consumi privati devono calare, quelli pubblici non possono più aumentare e le imprese, lontane dal recupero di competitività, non investono. Non è un caso che da un mese, mentre tutti parlano della crisi dell’euro, il dollaro perda valore. Era possibile, in tali condizioni, creare troppi problemi alle banche e a Wall Street? Il Congresso ha deciso che non era il caso, in questo aiutato dalle lobby che hanno speso circa 600 milioni di dollari in 18 mesi per orientare la scelta dei legislatori.
La nuova legge interviene con misure importanti a favore della protezione del consumatore, fa progressi nell’assicurare che i derivati siano quotati ufficialmente e soggetti a compensazioni centralizzate o se scambiati non ufficialmente siano sostenuti da capitali e comunque soggetti a regolazione degli emittenti. Le cartolarizzazioni saranno anch’esse meglio regolate e chi le farà sarà tenuto a mantenerne parte in portafoglio a condivisione del rischio. La Volcker rule è stata molto attenuata e le banche commerciali avranno deroghe al divieto di investire in operazioni speculative per conto proprio oltre una piccola quota del portafoglio. È stata introdotta un’autorità di vigilanza macroprudenziale, ma nel complesso sono addirittura aumentati gli istituti di sorveglianza che già erano la bellezza di 115 prima della riforma.
Come detto ciò che più manca sono norme che creino la capacità per la vigilanza di mettere il naso dentro i bilanci delle istituzioni finanziarie, valutare esattamente tutte le loro passività e attività e di utilizzare al meglio queste informazioni. I dati micro dell’attività delle istituzioni finanziarie sono l’unico modo per valutare la stabilità delle singole aziende e dell’intero sistema, devono essere non solo accessibili ma anche trasferibili all’interno del sistema di vigilanza. Quest’ultimo a maggior ragione non dovrebbe essere complesso e frammentato – in quanto tale ricattabile dalla finanza e infiltrabile dalla politica – ma semplice e concentrato.
A ben vedere si tratta dello stesso problema che ha la riforma europea della regolazione finanziaria. Anche in Europa il numero delle agenzie di vigilanza resta eccessivo ed è in sospeso il problema degli ostacoli nazionali alla libera circolazione delle informazioni microeconomiche sulle singole banche, imprese e assicurazioni che gli organi di vigilanza possono eventualmente raccogliere a livello locale, ma che per molte ragioni – soprattutto di protezionismo nazionale – finiscono per non filtrare verso l’alto fino al livello comune europeo.
È un alibi alla riforma il fatto che gli americani si siano fermati di fronte alla sfida della piena trasparenza? In passato i sistemi globali cercavano di competere tra loro abbassando le regole, oggi si scopre che sono i più prudenti ad avere un vantaggio nell’attrarre gli investimenti.
Chef Obama, la sua torta ha sapore di cartoncino
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