• sabato , 23 Novembre 2024

Fisco pesante, politica bipartisan

Dopo due anni in cui i governi si sono preoccupati di sopravvivere alla crisi globale, siamo forse arrivati alla vigilia di un macrocambiamento nel pensiero politico. Le riflessioni sulle strategie di uscita dalla crisi, il modo per tornare a politiche economiche non emergenziali, stanno evolvendo infatti in un quadro più compiuto del futuro. Un quadro per altro davvero inquietante. Le stime degli istituti indipendenti sugli strascichi fiscali della crisi sono univoche.
Le valutazioni del giugno scorso del Congressional Budget Office (Cbo), l’organismo indipendente di monitoring della politica fiscale, descrivono un futuro insostenibile in cui il debito pubblico americano dopo il 2025 diventa esplosivo. Le revisioni ad agosto e settembre delle stime confermano le preoccupazioni. In Europa le stime della Commissione sulla spesa sanitaria e pensionistica nei prossimi decenni non sono più rassicuranti di quelle americane.
Paradossalmente sono le famiglie ad avere una più chiara consapevolezza dei rischi che si proiettano sul futuro distante rispetto agli esperti della politica. Le ragioni del calo di consensi della presidenza Obama sono principalmente nell’insofferenza dei cittadini americani per l’accumulo di debiti a fronte di sostegni pubblici alle banche e d’iniziative fiscali di carattere congiunturale. Anche lo scetticismo di molti europei sui costosi salvataggi fiscali dei paesi colpiti dalla crisi non riguarda il costo attuale degli interventi, ma l’incertezza che la condivisione delle responsabilità fiscali crea per il futuro. Il normale orizzonte temporale delle famiglie è d’altronde molto più lungo dei cicli elettorali. Ma gradualmente, anche attraverso la pressione dell’opinione pubblica, il problema dell’orizzonte di lungo termine sta entrando nel linguaggio della politica e nell’agenda di breve termine.
La crisi è stata solo un elemento occasionale di aggravamento dei bilanci. Nel complesso tra il 2007 e il 2010 i disavanzi sono cresciuti di sette punti di Pil nel G7 (salendo al 9,25%), ma la parte non ciclica è stata solo di cinque punti di Pil e quella direttamente dovuta a stimoli fiscali discrezionali solo di due punti. La riflessione sui bilanci pubblici nel lungo termine finisce quindi per toccare gli elementi strutturali della spesa pubblica, principalmente sanità e pensioni, e quelli della tassazione.
In Europa il tema della sostenibilità fiscale ha già assunto il ruolo di àncora attorno alla quale la Germania ha vincolato alcune riforme istituzionali europee (il Patto di stabilità) e il coordinamento delle politiche (la exit strategy fiscale). Anche a Washington, per la prima volta da tempo, il dibattito al Senato sulla revoca a fine anno delle agevolazioni fiscali approvate dalla presidenza Bush sta introducendo il tema dell’ancoraggio di lungo termine delle prospettive fiscali del paese.
Guardando alle prospettive fiscali americane nel corso del decennio, non si riesce ad aggirare il fatto di dover aumentare le tasse, un argomento che è stato finora poco meno di un tabù. Rendere permanenti le deduzioni fiscali di Bush costerebbe per esempio 3 miliardi di dollari entro dieci anni, secondo Peter Orszag, ex capo del Cbo. Il deficit americano di quest’anno sarà superiore al 10% del Pil, mentre nell’ipotesi migliore si dimezzerà entro il 2015 e lì dovrebbe rimanere senza nuovi interventi. Dal lato della spesa si è appena intervenuti con una faticosa riforma sanitaria e poche possibilità di risparmio sono rimaste negli altri capitoli della spesa sociale. L’altra metà della spesa pubblica è composta da spesa per interessi, che potrebbe crescere visto il livello attuale dei tassi, e spese discrezionali (di cui buona parte per la difesa) da cui non sono attesi tagli superiori allo 0,4 per cento.
La necessità di alzare le tasse e accrescere le entrate costringe l’amministrazione a ragionare sull’orizzonte di lungo termine. Un aumento fiscale oggi è infatti difficile da immaginare. L’economia è troppo debole. Al tempo stesso, a politiche costanti le entrate federali saranno pari al 18% del Pil solamente nel prossimo decennio. Se le spese non possono scendere sotto l’attuale 23% del Pil, il disavanzo federale resterà tale da rendere instabile il finanziamento del debito pubblico americano. Per questa ragione sarà necessario prendere impegni vincolanti di probità fiscale sul lungo termine per poter far digerire ai mercati una certa larghezza di spesa pubblica in questi mesi, forse addirittura un paio d’anni, di stagnazione.
Perché gli impegni di lungo termine siano credibili sono necessarie importanti innovazioni politiche. La prima è rafforzare le istituzioni responsabili degli impegni fiscali di lungo termine, come doveva accadere in Europa con il Patto di stabilità; inoltre servono riforme strutturali che aumentino il tasso d’occupazione, nuove politiche di ripartizione degli oneri fiscali tali da coinvolgere tutti gli stakeholder e addirittura un ripensamento complessivo del ruolo dello stato che ridefinisca i confini tra pubblico e privato nell’industria medica o nei servizi sociali.
L’impatto sul pensiero della politica potrebbe essere sorprendente. Perché gli impegni fiscali siano credibili nel lungo termine è necessaria qualche forma di consenso bipartisan (anche sotto forma di vincolo costituzionale, come si propone in Europa). L’ipotesi è particolarmente suggestiva negli Stati Uniti dove dopo le elezioni di mid-term è prevedibile che l’Amministrazione sarà costretta a trovare un accordo con l’opposizione repubblicana.
Se Europa e Stati Uniti troveranno entrambi un meccanismo di disciplina fiscale restrittivo per il lungo termine, svilupperanno anche un interesse convergente a premere sulle economie emergenti affinché sostengano la crescita globale. L’agenda transatlantica ritroverebbe vigore in ragione questa volta delle debolezze e non dei punti di forza delle economie avanzate. Dal punto di vista degli equilibri globali si tratterebbe di un ritorno d’importanza dei rapporti politici tra Usa-Europa che sembravano oscurati dall’interesse economico per i grandi paesi del Pacifico.

Fonte: il Sole 24Ore del 21 settembre 2010

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