• giovedì , 28 Novembre 2024

La carovana della destra ribelle alla conquista del Congresso

Gli autobus dei Tea Party attraversano gli Usa a caccia di voti Il viaggio Sarah Palin benedirà la partenza. E sta arrivando anche Joe Arpaio, il più duro sceriffo d’ America L’ imperativo Portare voti alla causa antistatalista No alla spesa federale anche per le opere pubbliche
Gli autobus che partono oggi da Reno, in Nevada, per una cavalcata elettorale da costa a costa, sono come quelli delle precedenti spedizioni organizzate per lanciare il movimento, ma nel frattempo le cose sono cambiate. I «Tea Party» senza gerarchie, gelosi del loro localismo, zeppi di radicali, ruspanti, sognatori, insofferenti di ogni autorità, stanno diventando entità politiche adulte: sempre ultraconservatrici, libertarie, attraversate da una vena anarchica, ma anche decise a conquistare una fetta di potere a Washington e consapevoli che per ottenerlo e gestirlo occorrono pragmatismo, compromessi, fonti di finanziamento cospicue e stabili. L’ appuntamento dei Tea Party Express, la più dinamica e spregiudicata delle organizzazioni dell’ arcipelago della rivolta conservatrice, è per stamattina alle 10 in un parcheggio di Reno, Nevada, tra la sede locale del partito repubblicano e il casinò Atlantis. Stavolta, a differenza delle precedenti spedizioni, non si fa proselitismo, ma si vanno a conquistare voti per i «candidati del tè» che prima hanno sbaragliato, nelle primarie, gli uomini dell’ «establishment» repubblicano, e ora sfidano i democratici. A battezzare il tour ci sarà Sarah Palin, ormai di casa alle manifestazioni della destra ribelle. Si comincia attraversando il Nevada, da Elko a Las Vegas, per sostenere la «testa calda» Sharron Angle, contro il presidente dei senatori democratici Harry Reid. Dall’ Arizona sta arrivando anche Joe Arpaio, il più duro sceriffo d’ America. Poi in California fino a Long Beach, estremo sud della costa pacifica. Da lì si attraversa tutto il Paese per chiudere nel nord est, in New Hampshire, il primo novembre, a poche ore dal voto. Tra Camera, Senato e governatori, i «Tea Party» si presentano all’ appuntamento di «mid term» con 138 candidati. C’ è di tutto: piloti, proprietari di «ranch», medici, gestori di pizzerie, avvocati, veterani di guerra. Molti sono inesperti o rischiano di mettere in fuga l’ elettorato centrista con la loro interpretazione caricaturale della politica. Altri, invece, col loro messaggio di rabbia, un antistatalismo radicale e l’ obiettivo esplicito di demolire il lavoro fatto da Obama (a partire dalla riforma sanitaria) ce la faranno. Secondo un’ analisi pubblicata dal New York Times, i candidati che si ispirano alla rivolta del tè del 1773 il 2 novembre potrebbero conquistare 35 seggi e diventare una forza molto influente a Washington: una forza «grassroots» nata da una spontanea rivoluzione dal basso o un movimento «astroturf», cioè pianificato a tavolino dagli strateghi conservatori alla ricerca di linfa nuova dopo la sconfitta repubblicana del 2008? Se volete sostenere la teoria del «burattinaio», il materiale sul quale lavorare non manca: nel Tea Party Express, dietro il tribuno Mark Williams, costretto a lasciare la presidenza dopo essere stato espulso dalla «Tea Party Federation» per gli insulti razzisti pronunciati a raffica, e dietro la nuova presidentessa Amy Kremer, ex hostess e fondatrice dei Tea Party Patriots, un’ organizzazione rivale da lei fondata e poi abbandonata, ci sono le strategie e i soldi raccolti da Sal Russo, una vecchia volpe della politica conservatrice americana: uno che ha cominciato la sua carriera lavorando per Ronald Reagan e che prima, da studente negli anni 60, faceva il volontario per Barry Goldwater, il padre dei conservatori ultraliberisti. Vari movimenti dell’ arcipelago del tè vengono poi finanziati, a volte senza nemmeno esserne consapevoli, dai fratelli Koch, Charles e David, padroni di un impero petrolchimico con un giro d’ affari di 100 miliardi di dollari. Conservatori, sostenitori della «deregulation», per decenni hanno dato soldi ai «think tank» liberisti e hanno provato, con scarso successo, a fare politica in proprio. Poi hanno cambiato strada cominciando a finanziare i nuovi movimenti «dal basso». Senza mai comparire, fino a quando sono stati scoperti da «Greenpeace» e da un’ inchiesta del New Yorker. «Si erano accorti – spiega Bruce Bartlett, economista e storico che ha lavorato a Dallas in un centro finanziato dai Koch – che il fronte libertario era pieno di capi ma non aveva truppe. Bisognava creare un movimento». Dietro l’ improvvisa rivolta dei conservatori contro Obama, innescata un anno e mezzo fa dall’ avvio della riforma sanitaria, c’ è, poi, anche lo zampino di Karl Rove, lo stratega delle vittorie elettorali di George W. Bush, promotore di nuove organizzazioni repubblicane al di fuori del partito. Tutte iniziative che sarebbero rimaste senza esito se non avessero trovato un ambiente favorevole: con l’ America in declino, i conservatori erano da tempo frustrati e impauriti, ma alla Casa Bianca c’ era Bush e loro si sentivano impotenti. Obama e l’ avvitamento della crisi hanno fatto scoccare la scintilla. Trasformata in incendio da chi non vuole un capo nero, da chi lo considera un agente segreto dell’ Islam o del comunismo, ma anche da chi è genericamente arrabbiato o, semplicemente, non vuole che la crisi sia combattuta allargando il deficit federale e il perimetro delle attività svolte dallo Stato. Certo, il denaro di «big oil» è stato utile ad alimentare il fuoco. E a spingere i Tea Party, anche se tuttora divisi da gelosie e rivalità profonde, a diventare «big tea»: movimenti di popolo nei quali crescono organizzazioni complesse con le loro gerarchie, centri di formazione politica in molti Stati, dal Texas al Kansas, un sistema di selezione dei candidati (giudicati sulla base della risposta a 80 domande, quasi tutte a sfondo economico), una testa che già sta individuando i repubblicani del vecchio «establishment» da attaccare alle prossime elezioni, quelle del 2012. Fin d’ ora, però, i «duri e puri» imparano a essere pragmatici: in Missouri appoggiano un repubblicano, Roy Blunt, che ha votato a favore del salvataggio delle banche, un peccato mortale per i Tea Party. E anche in Ohio e in altri Stati «di frontiera» nello scontro coi democratici, i ribelli si turano il naso e votano candidati repubblicani che, durante le primarie, erano stati accusati di ogni nefandezza dai candidati radicali, poi battuti. Per adesso l’ unico imperativo è conquistare voti alla causa antistatalista di un fronte che boccia la spesa federale anche per le opere pubbliche. E che diffonde il suo messaggio dai bus del tè che scorrazzano sulla rete autostradale, la più grande infrastruttura pubblica d’ America. Voluta da Eisenhower, un presidente repubblicano.

Fonte: Corriere della Sera del 18 ottobre 2010

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