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L’America di oggi e la grande amnesia

La voce roca per il freddo e l’umidità, le tempie sempre più grigie, da una città all’altra d’America Barack Obama ha sfidato fino all’ultimo il fantasma della Grande amnesia. Quella di un Paese – chiamato oggi al voto – che ha dimenticato dove era finito due anni fa: il ceto medio demolito da due decenni di distribuzione estremamente sperequata del reddito e gravato da un debito insostenibile, una crisi finanziaria senza precedenti che stava per produrre una vera apocalisse del risparmio e poteva far saltare lo stesso sistema dei pagamenti, riportando l’economia all’età della pietra.
La narrativa scelta dal presidente per cercare di scuotere il suo elettorato disilluso è quella dell’auto fatta precipitare in un burrone dai repubblicani. «L’hanno lasciata lì e se ne sono andati. È toccato a noi andarla a recuperare: l’abbiamo spinta su per la china con sforzi enormi, siamo riusciti a rimetterla in strada, l’abbiamo girata nella giusta direzione e quando stiamo per ripartire, da dietro qualcuno ci fa tap tap sulla spalla: è un repubblicano che vuole le chiavi. Volete dargliele?».
La storia, ripetuta dal presidente in tutte le piazze, è efficace, ma è fondata solo a metà: è vero che se l’America è finita in un burrone, ciò è dipeso soprattutto dagli errori commessi nell’era Bush. Non è vero che ora il Paese sia di nuovo in carreggiata, pronto a ripartire chiudendo la parentesi di una crisi sfortunata. Girando tra i giovani venuti ad ascoltare il presidente non è difficile trovare chi nota: «Ha fatto la riforma sanitaria, d’accordo, ma io ho bisogno di lavoro, non di medicine». La disoccupazione divora benessere e fiducia e tutto fa pensare che resterà elevata ancora per anni.
Ma è difficile raccontare la dura verità a un popolo la cui storia, a differenza di un’Europa che ha vissuto anche cadute e secoli bui, è quella di una cavalcata verso la grandezza, di una crescita pressoché ininterrotta. Al pari dei repubblicani, due anni fa Obama ha venduto agli americani la favola di un Paese pronto a partire per una nuova, fantastica avventura. Niente declino né crisi irreversibile dei ceti medi, né spostamento della ricchezza dall’Occidente alle nuove potenze asiatiche, ma un’America che deve ancora vivere i suoi giorni migliori. Forse non poteva fare diversamente: infrangere l’epica di un Paese che non riesce a concepire niente di diverso dal primato assoluto rischiava di essere politicamente suicida.
Ma oggi quell’America che ha creduto alla sua promessa di cambiamento radicale, che ha preso il marchio obamiano della speranza e l’ha fatto sventolare sulla porta di casa, l’ha appiccicato sui paraurti della sua auto, l’ha indossato, gli presenta il conto. Prematuramente, sostiene Barack. Che, incalzato dalla propaganda repubblicana, a sua volta imbevuta di patriottismo e di fede assoluta nell’«eccezionalismo» americano, respinge l’accusa di «voler trasformare il Paese-guida in una nazione come un’altra, una qualunque repubblica statalista europea», rilanciando la sfida del Ventunesimo secolo come nuova era di supremazia americana «perché a noi non interessa correre per il secondo posto».
La realtà è un po’ diversa: all’indomani del voto di oggi, con la prevedibile sconfitta dei democratici che perderanno il controllo della Camera mentre potrebbero mantenere, ma solo di un soffio, la maggioranza al Senato, verrà il momento delle decisioni difficili: il braccio di ferro con la Cina, gigante aggressivo da contenere sul piano politico e commerciale, il piano di progressivo ritiro dall’Afghanistan anche senza vittoria sui talebani e, soprattutto, la necessità di intervenire con misure imponenti e impopolari su un disavanzo pubblico di lungo periodo che tutti gli esperti, repubblicani o democratici, considerano ormai insostenibile.
Per il presidente cedere ai repubblicani il controllo del Congresso potrebbe anche non essere il peggiore dei mali. La gente li considererà corresponsabili del governo, dovranno darsi da fare anche loro per rimettere la vettura in carreggiata. Certo, il loro obiettivo principale resterà quello di cacciare Obama dalla Casa Bianca già nel 2012, dopo il primo mandato. Collaborare significherebbe consentirgli di rompere l’isolamento. La tentazione di lasciarlo solo a gestire una austerità severissima sarà molto forte. Ma molti conservatori, decisi a non farsi travolgere dal radicalismo dei «Tea Party», capiscono che, avanti di questo passo, rischiano di ereditare troppe macerie e una posizione internazionale degli Usa seriamente compromessa.

Fonte: Corriere della Sera del 2 novembre 2010

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