• venerdì , 22 Novembre 2024

Tutti sconfitti alla guerra delle valute

La signora Merkel ne ha fatta un’altra delle sue.Facendo discutere il 29 ottobre in sede di summit europeo la sua proposta di far pagare anche agli investitori in titoli di stato di paesi che hanno bisogno dell’aiuto del fondo europeo di salvataggio, ha messo una carica di sfiducia di grosso calibro nel mercato dei titoli stessi, col risultato che i titoli irlandesi, che già erano in sofferenza per motivi molto seri e che si sono voluti nascondere dietro vari paraventi per troppo tempo, invece di affrontarli insieme ai problemi greci a maggio, sono stati sommersi dalla speculazione. Il risultato è stato che al vertice del G20 si è dovuto dedicare una quantità di tempo a questo problema, e i ministri delle finanze europei hanno dovuto emettere un comunicato per rassicurare i mercati sottolineando che le eventuali proposte tedesche cominceranno ad applicarsi solo al nuovo debito e solo dal 2013. Il danno tuttavia era fatto. I rendimenti dei titoli dei paesi periferici sono schizzati e a farne le spese è stato il Tesoro italiano che ha sì portato a termine l’asta che aveva organizzato, ma ha dovuto fare uno sconto più alto sui suoi titoli in vendita. Abbiamo già al tempo della crisi greca messo in rilievo che l’Irlanda era la vera mina vagante, per via dei suoi giganteschi problemi di insolvenza bancaria e che non sarebbe durato a lungo e avrebbe destabilizzato i mercati il tentativo di nascondere lo stesso problema. Ora la mina è esplosa, ma si continua sulla stampa angloamericana a fare capziosi distinguo tra Irlanda e altri paesi della periferia europea.
Quali siano i motivi che ispirano le dichiarazioni della Merkel, non è dato sapere. A breve, la Germania si avvantaggia delle conseguenze delle dichiarazioni sui mercati dei titoli e dei cambi. L’euro stava pericolosamente risalendo proprio ora che si affievolisce la crescita in Germania, e le parole della Merkel lo hanno mandato in direzione opposta. L’allargarsi del differenziale tra i tassi tedeschi e quelli della periferia europea serve a difendere il settore finanziario tedesco, che la Merkel sa bene quanto sia debole malgrado i giganteschi interventi di salvataggio. Tutto questo identifica un egoismo nazionale che non sta bene con i doveri del paese guida europeo di mostrare la via, comportarsi responsabilmente e rifuggire dalle destabilizzazioni volontarie dei mercati.
Chi legge la dichiarazione finale del G20 vi trova clausole di vaga solidarietà internazionale ma quasi nessun impegno ad affrontare insieme i problemi e gli squilibri che la finanza internazionale registra da tempo. Ci sono nella dichiarazione generiche affermazioni sulla differenza di fase ciclica che esiste tra paesi in deficit, ancora pieni di disoccupazione e paesi in surplus che crescono esportando a tutti costi. Si dice che i secondi cercheranno di far crescere la domanda interna e i primi di equilibrare i propri conti esteri col rilancio delle esportazioni. Si dice anche che i cambi devono essere flessibili, per permettere questi movimenti virtuosi. E si affidano vari compiti di mutua sorveglianza al Fmi mentre si approva l’operato del Financial Stability Board nella funzione di redazione di regole di supervisione efficaci e lo si invita ad andare avanti. Si parla anche di un sistema di early warning da mettere in opera sulle crisi che si profilano, di nuovo dandone la competenza al Fmi.
Gli irritatissimi paesi emergenti, afflitti da rivalutazioni record delle valute, ricevono nel documento una sorta di permesso di ricorrere a controlli sui flussi di capitale a breve che fanno salire i loro cambi e possono altrettanto rapidamente farli crollare. È un permesso che arriva dopo che tali controlli hanno cominciato ad essere introdotti da quei paesi. Ci sono poi, nel documento del G20, vigorose reiterazioni della necessità di tenere i mercati delle merci aperti e liberi. A dover aver paura sono i grandi esportatori, Germania, Giappone e specialmente Cina. Ma è interessante che sia la Germania, per bocca della Merkel, a fare dichiarazioni di liberoscambismo a oltranza. I cinesi, pur avendo un surplus fuori di ogni misura con gli Stati Uniti, mantengono una calma maggiore. Essi sanno che a difendere le loro esportazioni negli Usa saranno in ogni caso le multinazionali americane, che delle stesse esportazioni sono le maggiori produttrici in Cina e che si sono ormai bruciati i ponti alle spalle, avendo chiuso le fabbriche negli Usa e negli altri paesi ad alti salari. È di questo che i tedeschi, per ultimo il ministro Schauble, accusano gli americani. Appare loro, e sembra a molti altri, assoluta follia mettere un paese gigantesco come gli Stati Uniti alla mercè delle produzioni straniere concentrandole in un solo paese come la Cina, nei cui confronti le capacità di pressione e ricatto sono minime. La recente diatriba sulle “terre rare” ha messo in luce che la gran parte dei produttori americani di questi materiali, indispensabili all’industria elettronica e ad altre branche industriali come gli armamenti, hanno spostato la produzione in Cina dopo aver chiuso le loro fabbriche americane. I maggiori utilizzatori sono le industrie cinesi e da ciò nasce il desiderio di Pechino di rendersi autosufficiente e non ricattabile. La differenza di comportamento tra Usa e Cina salta agli occhi.
Ora le autorità americane sembrano aver cambiato strategia nei confronti della Cina e lo hanno dimostrato a Seul. Fanno delle conquiste e dei primati cinesi annunciati ogni giorno, e delle defaillance americane, motivo per promuovere le strategie della presidenza Obama indebolita dai risultati elettorali. La necessità di tornare ad essere primi viene posta come obiettivo patriottico e bipartisan. Obama ha citato il primato cinese nei supercalcolatori, e la stampa americana fa notare che ormai è la Cina a detenere il record annuale dei brevetti e che gli Stati Uniti sono crollati al 48° posto nella classifica dell’educazione matematica e scientifica. La stessa stampa sottolinea inoltre che nelle scuole di perfezionamento americane, metà degli studenti sono stranieri. E che essi, una volta finiti i loro studi, non cercano più di restare negli Stati Uniti ma preferiscono tornarsene nei paesi di origine dove hanno opportunità di impiego almeno equivalenti. In questo almeno, americani e tedeschi si trovano uniti nelle lagnanze. I laureati e diplomati in discipline scientifiche di origine autoctona sono assai pochi, rispetto alle richieste del mercato, sia in Germania che negli Stati Uniti. E mancano anche gli operai specializzati.
Sono problemi strutturali dell’intero Occidente che colpiscono anche il Giappone. Dunque problemi dell’intero gruppo dei paesi sviluppati che a un economista sembrano indotti dai guadagni relativi che nei nostri paesi si offrono a operai specializzati e a laureati in discipline scientifiche. E’ dunque un volgarissimo problema di incentivi e solo cambiando i guadagni relativi può essere risolto. Obama, conscio sin dalla sua discesa in campo della veloce perdita di terreno degli Stati Uniti dove hanno sempre avuto una orgogliosa leadership, la scienza e la teconologia che sono state la bandiera della società americana almeno da metà Ottocento, cerca di usare la rivalità con la Cina per promuovere una veloce rinascita negli Stati Uniti del fervore scientifico e tecnico. Qui ha ragione Schauble: fin quando questa sfida non sarà affrontata dagli Stati Uniti ma anche dal resto dell’Occidente, le riunioni del G20 continueranno a mettere in luce la fatica dei paesi sviluppati a tenere testa alla sfida di quelli emergenti. E si possono concordare dichiarazioni congiunte anodine sulla necessità di risolvere insieme problemi comuni. Ma non si può sottrarsi alla possibilità che un paese, la Cina, si permetta di far partire una società di rating autoctona, che decide di declassare il debito pubblico americano: lo ha appena fatto la Dagong accompagnando la decisione con un Rapporto sull’economia americana nel quale il disprezzo per la trasformazione strutturale e la finanziarizzazione di quel paese si legge ad ogni riga. Resta alla finanza americana la possibilità di interrompere i flussi verso i paesi emergenti, causando il crollo delle quotazioni dei loro titoli, delle loro materie prime, dei loro mercati immobiliari. Ed è quello che sembra abbiano deciso di fare, a giudicare dalle ultime notizie. Ma è veramente una strategia disperata che ricorda Sansone e il tempio di Gerusalemme.

Fonte: Affari e Finanza del 15 novembre 2010

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