• sabato , 23 Novembre 2024

Quel matrimonio d’interesse fra la Germania e l’Unione europea

Nonostante una crisi finanziaria gravissima tra l’inizio del 2005 e l’autunno 2010, il numero dei disoccupati tedeschi è sceso da 5 milioni a meno di tre. L’Ocse ha appena previsto che nei prossimi anni il surplus con l’estero della Germania tornerà a superare quello della Cina. Come è possibile per i paesi dell’euro convivere con questo “elefante nella scialuppa”?
Il grafico della produzione industriale dà un’immagine della divergenza che si sta creando anche nei confronti di Francia e Italia (-15% nei soli ultimi 4 anni).
E la Germania sembra essersi staccata dal ciclo europeo e replicare il Pil globale, com’è logico per un paese che ha una quota di commercio estero sul Pil quasi doppia rispetto a quella della media dei paesi del G-7. Tra il gennaio 2007 e oggi, l’export tedesco verso la Cina è cresciuto dell’80%, quello verso l’India del 40%, quello verso la Francia non è variato e quello verso la Spagna è sceso del 20 per cento. Secondo i calcoli di Goldman Sachs, alla fine del 2011 la Cina sarà per la Germania un partner commerciale più importante della Francia. Vale appena la pena di ricordare che la Ue è nata sulla spina dorsale dei rapporti commerciali franco-tedeschi.
Agganciare lo sviluppo tedesco non è impossibile, altri paesi lo stanno facendo: Benelux, Slovacchia, Scandinavia, Ungheria, Olanda, Austria e Polonia per esempio. Ma per i paesi in difficoltà o considerati alla periferia si assiste a un distacco reale dal centro di gravità economica europeo. Spagna, Irlanda e Italia sono i tre paesi che risentono meno degli stimoli tedeschi. Una politica fiscale espansiva a Berlino ha effetti in Slovacchia dieci volte maggiori di quelli sull’Italia, in Ungheria di otto volte e perfino in Francia e Gran Bretagna l’effetto è quasi doppio rispetto a quello sull’economia italiana. L’Italia ha in parte replicato il modello tedesco di subforniture all’Est europeo e quindi forse ha flussi commerciali indiretti che correggerebbero le stime, ma c’è il rischio comunque di distaccarsi troppo dal maggiore attore commerciale mondiale. Un giorno, infatti, la Cina replicherà lo stesso livello di qualità delle produzioni tedesche e sarà più difficile esportare, come si vede oggi nelle macchine per ufficio o in quelle elettroniche, ma si tratterà di un processo pluriennale e altri mercati nel frattempo stanno per aprirsi e garantire che il modello trainato dall’export resti avvantaggiato.
Perché il successo tedesco non spacchi l’Europa è necessario che il difficile adeguamento strutturale dei paesi della periferia sia aiutato da una ripresa sorretta dalla domanda interna tedesca. Il grafico sui consumi in pagina dimostra che non sarà facile che avvenga spontaneamente. Mentre il consumo nel resto d’Europa è cresciuto sensibilmente negli ultimi dieci anni, in Germania è rimasto stabile. Stabile d’altronde è anche il reddito disponibile delle famiglie. I salari lordi, infatti, sono gravati da oneri fiscali molto cresciuti tra il 2007 e il 2009.
Teoricamente il progetto del governo di Berlino di tagliare le tasse va dunque nella direzione giusta, ma è dubbio che vedrà mai la luce. Il recente rapporto annuale dei saggi dell’economia tedesca – particolarmente “patriottico” quest’anno – riflette tutte le resistenze tedesche alle richieste europee e globali di stimoli che passino dall’aumento dei salari o anche da riduzioni di tasse o aumenti di spesa pubblica.
Non c’è modo di scuotere questa sordità tedesca, nemmeno suggerendo il ricorso agli investimenti pubblici: nel 2011 è previsto che aumentino solo dello 0,5%, ma nel 2012 a seguito dei provvedimenti di consolidamento fiscale scenderanno del 15,9 per cento.
Il consenso in Germania è per una politica di continuità: contenimento dei salari e riforme del mercato del lavoro con l’obiettivo, supportato dalle stime acrobatiche della Bundesbank, di aumentare l’occupazione e la crescita e attraverso questa strada contribuire alla domanda interna e alle importazioni dall’estero. Purtroppo i risultati degli ultimi dieci anni raccontano una storia diversa. La riduzione dei salari non ha affatto coinciso con un aumento della domanda interna, come dimostra il tasso di crescita del Pil mediamente molto basso nel decennio. Può darsi che ci sia un aggiustamento in corso e che in futuro le cose cambino, ma è lecito essere scettici.
La versione ufficiale di Berlino è che la moderazione salariale degli ultimi dieci anni sia stata solo una compensazione degli eccessi degli anni 90. Ma nelle statistiche non vi è evidenza di ciò. In una parte isolata del rapporto dei saggi si legge invece un’analisi molto diversa: le grandi riforme del mercato del lavoro non avrebbero ridotto la disoccupazione nella parte occidentale del paese dove il numero dei disoccupati è rimasto inalterato tra il 2000 e il 2010 (2,4 milioni). Quello che è cambiato è stato il superamento della disoccupazione nelle regioni orientali, cioè di fatto il compimento della riunificazione.
Quanto all’aumento dei salari, negli ultimi dieci anni gli altri paesi dell’euro hanno mantenuto lo stesso ritmo di crescita del decennio precedente (2,8% annuo), mentre in Germania il ritmo è calato all’1% annuo circa. Chi ha ragione? Nessuno, perché la crescita tedesca sostenuta dall’export è possibile solo per l’eccesso di consumi degli altri paesi. Se tutti avessero tagliato i salari, probabilmente l’Europa sarebbe caduta in recessione. Inoltre quando i salari vengono tenuti al di sotto dell’aumento di produttività, come è avvenuto in Germania, si finisce per danneggiare i paesi partner, allo stesso modo di quando gli inglesi svalutano la sterlina e scaricano i problemi sui paesi dell’euro. Ovviamente l’errore più grande, perché autolesionista, lo hanno compiuto i paesi della periferia che hanno perso competitività non solo nei confronti della Germania, ma di tutto il mondo, e quindi hanno certamente vissuto con costi della produzione superiori alla produttività.
Ciò che più colpisce però della situazione tedesca è che l’eccesso di risparmio che è risultato dalla debolezza dei consumi non si sia tradotto in un volume d’investimenti nel paese. Anche in questo caso si tratta di un problema per chi (compreso chi scrive) ha visto i problemi europei degli ultimi vent’anni soprattutto in termini di politiche dell’offerta: la riduzione delle tasse sulle imprese e le riforme strutturali non hanno creato incentivi a investire nel paese, benché abbiano certamente evitato il rischio molto reale di una desertificazione industriale. In un ambiente globalizzato le riforme strutturali sembrano essere al tempo stesso indispensabili e insufficienti.
Le statistiche non confermano nemmeno che il risparmio sia il risultato della restrizione dei consumi delle famiglie se è vero che la quota di risparmio privato sul reddito è scesa negli ultimi dieci anni rispetto ai dieci precedenti. L’aumento di risparmio al contrario è stato sensibile tra imprese e banche che, tra il 2004 e il 2008, hanno accumulato disponibilità finanziarie ingenti, che poi si sono tradotte negli investimenti tedeschi di capitale all’estero. Nei soli paesi euro, i crediti delle banche tedesche sono quadruplicati tra il 1999 e il 2008. Sono quei capitali arrivati anche in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, e che fanno di Berlino il maggior creditore dei quattro paesi della periferia euro, contribuendo agli squilibri attuali. Anche in Irlanda (in particolare con Depfa) le banche tedesche si sono distinte per cattivi investimenti.
Come si capisce, non c’è uscita dalla crisi attuale se non si arriva a un accordo politico tra centro e periferia della zona euro. La Germania ha molto da insegnare ai paesi deboli e questi ultimi devono dare ogni garanzia di disciplina e soprattutto di onestà (anche in Irlanda, non solo in Grecia) ma non ci sarà riequilibrio se Berlino non comprenderà le responsabilità di essere la maggiore economia dell’euro. In fondo, Berlino ha molto da guadagnare da una politica d’investimenti reali che espandano la crescita a tutta l’Europa. In fondo sarà sempre meglio investire in nuove attività produttive, o nella formazione e nella salute dei propri cittadini piuttosto che buttare i capitali nelle peggiori scelte finanziarie o immobiliari del mondo, com’è avvenuto con testardaggine negli ultimi dieci anni.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 25 novembre 2010

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