• domenica , 24 Novembre 2024

Stati uniti d’Europa

Senza un’integrazione politico-istituzionale l’Europa monetaria non ha senso.Ormai è chiaro anche a chi finora ha evitato di guardare in faccia la realtà: l’euro è in crisi. Non la moneta sui mercati, che pure è ulteriormente scesa arrivando ieri a 1,32 sul dollaro – ma fa solo bene all’export, e poi se si guardano i fondamentali dovrebbe calare ancora – quanto l’impianto stesso della moneta unica. Infatti, formalmente è l’eccesso di deficit e debito pubblico in Grecia e Irlanda a provocare la caduta dell’euro, in realtà è la sua fragilità strutturale che trasforma le difficoltà di quei paesi – che non dispongono più della leva monetaria e quindi non possono svalutare – in altrettante bombe pronte a scoppiare se non vengono disinnescate a suon di miliardi che in solido devono metterci tutti gli altri membri dell’euroclub. Dunque, finora della crisi finanziaria europea abbiamo confuso le cause con le conseguenze: il rischio di default greco ieri e quello irlandese oggi – come quello portoghese e spagnolo domani, se disgraziatamente la pressione speculativa dovesse continuare – altro non sono che il precipitato di un problema a monte, quello dell’esistenza di debiti sovrani in capo a Stati che hanno una comune valuta.
Racconta chi ha partecipato all’inizio degli anni Novanta alle trattative prima e in occasione della firma del Trattato di Maastricht da cui è nato l’euro, che una delle questioni più spinose che furono affrontate dai padri della moneta unica era proprio quella dei debiti degli Stati membri. La proposta italiana fu quella di unificarli in un unico debito comune – non casualmente, visto che avevamo già allora quello maggiore, sia in termini di stock sia in proporzione al pil – ma l’idea, che pure non fu formalmente respinta, rimase sulla carta. Al di là della strumentalità, che indubbiamente c’era, l’intenzione non era affatto peregrina, perché con l’eliminazione delle valute nazionali e delle relativa sovranità monetaria veniva a mancare un pezzo decisivo degli strumenti di gestione dei singoli indebitamenti, e siccome tra i firmatari di quel Trattato e poi effettivi soci della moneta europea c’erano paesi forti e sani e altri deboli e indebitati, una politica monetaria unica per situazioni tanto diverse era scritto che avrebbe causato un mare di problemi. E’ anche vero, peraltro, che per unificare i debiti pubblici si sarebbe dovuto gestire con mano se non unica almeno il più unitaria i deficit correnti, e con essi le politiche fiscali e quelle di spesa. In una parola, l’intera politica economica.
Insomma, i padri dell’euro capirono che l’unificazione monetaria avrebbe dovuto comportare la creazione – se non prima, almeno in concomitanza – di uno stato federale che unificasse l’Europa, almeno quella dell’euro, sul piano politico e istituzionale. Ma non se la sentirono di fare quel passo, o più probabilmente non c’erano le condizioni per compierlo, e così si affidarono alla speranza – malriposta – che il processo fosse inverso: prima la moneta e poi l’unificazione politica. Così non è stato, però, né poteva ragionevolmente essere. E chi, come il sottoscritto – ma in buona compagnia: ricordo il governatore della Banca d’Italia, Fazio – ebbe ad ammonire che quel miracolo non si sarebbe verificato e che costruire l’impianto della moneta europea su quelle fragili basi rappresentava un azzardo che prima o poi avremmo pagato caro, fu descritto non “euro-preoccupato”, come era giusto, e nemmeno “euro-scettico”, che era definizione un po’ forzata e fuorviante ma ci poteva anche stare, bensì fu esposto al pubblico ludibrio con l’infamante bolla di “euro-disfattista”. Che è la stessa, noto, usata in questi giorni anche per la signora Merkel, rea di aver espresso la sua preoccupazione per un sistema di crisi e di conseguenti salvataggi che non può certo perpetuarsi a lungo, sia perché dopo Grecia e Irlanda c’è spazio solo per un intervento a favore del Portogallo e poi sono finiti i soldi del fondo anti-default varato a giugno, sia perché non ha senso che i paesi solidi e oculati nella gestione della loro finanza pubblica debbano tassarsi per rimediare agli errori compiuti da altri. Oltretutto, non lo accettano le opinioni pubbliche: quelle dei paesi virtuosi per ovvie ragioni, ma neppure quelle dei paesi “viziosi”, perché giustamente i primi pretendono misure draconiane per mettere in campo gli aiuti (vedi le reazioni, a suon di scioperi e manifestazioni anche violente, che ci sono in Grecia e Irlanda).
Qui i “disfattisti” sono coloro che ritardano colpevolmente il chiarimento finale in seno a Eurolandia: o si va subito verso gli Stati Uniti d’Europa, e allora l’euro si salva, oppure, siccome è assodato che senza un’integrazione politico-istituzionale l’Europa monetaria non ha né senso né futuro, è meglio (meno peggio) decidere una multipla separazione consensuale. Perché l’alternativa è che a prendere la decisione sia in via unilaterale la Germania, che è più che mai tentata dal ripudiare l’euro, o espellendo i paesi più deboli o resuscitando il marco. E non lo dico per prendermi una rivincita postuma: se c’è un paese che dalla crisi dell’euro ha più da rimetterci, questo è l’Italia.

Fonte: Il Foglio del 26 novembre 2010

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