Come cambiano i media tradizionali di fronte agli scoop via Internet
Al Wall Street Journal e alla Cnn si chiedono se hanno fatto bene a rifiutare il materiale offerto loro da Wikileaks e per quanto tempo dovranno inseguire il fiume di rivelazioni o conferme di fatti già noti, ma che riemergono in una nuova luce nei cablogrammi della diplomazia Usa. Al New York Times, invece, ci si preoccupa soprattutto delle implicazioni professionali della pubblicazione di un certo numero di questi dispacci, «riveduti e corretti» dopo una consultazione col Dipartimento di Stato. Il direttore Bill Keller ammette che in questi giorni è costretto a fare più il diplomatico che il giornalista: la definizione dei criteri in base ai quali scegliere i dispacci da pubblicare, i nomi da censurare per motivi di sicurezza, un filo diretto e continuo col ministero degli Esteri al quale viene inviato tutto il materiale che si vuole pubblicare. E alla fine bisogna decidere quali richieste governative accogliere e quali ignorare. Per non parlare dello snaturamento della professione del giornalismo investigativo: anche con la pubblicazione dei Pentagon Papers, all’ inizio degli anni ‘ 70, il New York Times sfidò il potere rivelando documenti governativi segreti. Daniel Ellsberg, il funzionario che nel 1971 consegnò i documenti alla stampa, dice di ritrovare in Wikileaks e in Assange lo stesso suo coraggio di quarant’ anni fa. Ma allora quello che uscì fu un insieme di documenti che ricostruivano una storia precisa (costo e conseguenze reali della guerra del Vietnam) che era stata nascosta agli americani. Stavolta il quadro è un po’ diverso: davanti a un oceano (oltre mezzo milione di dispacci) di materiale grezzo, proveniente da una miriade di fonti diplomatiche che hanno svolto quotidianamente (con correttezza e una certa competenza, a quanto è dato capire) il loro normale lavoro diplomatico, qual è il ruolo del giornalista che riceve il materiale di Wikileaks? Interprete dei fatti o solo mediatore? Analista? Megafono? Filtro? Nel dialogo continuo coi lettori (molti dei quali critici col giornale per la sua scelta di pubblicare i cablogrammi, anche se con la cautela della consultazione preventiva del Dipartimento di Stato) e nelle interviste che ha concesso in questi giorni, Bill Keller ammette gli imbarazzi, la difficoltà di gestire una situazione anomala, senza precedenti: «Mi sono trovato io stesso nel ruolo del diplomatico. Una cosa che non viene di certo naturale al giornalista che, in genere, è uno solitario e competitivo. Cambia il nostro modo di scrivere di politica estera, di trattare le fonti diplomatiche? Sì, certo, ma solo temporaneamente. Questa è una situazione straordinaria. È strano trovarsi ad avere un accesso così intimo agli eventi. Ma non è un caso che si ripeterà in futuro, sono pronto a scommetterci». Julian Assange (che stavolta aveva tagliato fuori il quotidiano americano dal suo circuito informativo costringendo il Times a rivolgersi ai colleghi britannici del Guardian per avere accesso al materiale Wikileaks) la vede un po’ diversamente: «Col materiale che abbiamo tirato fuori finora abbiamo compiuto appena un millesimo della nostra missione». Dopo le rivelazioni di luglio sulla guerra in Afghanistan e quelle di ottobre sull’ Iraq, l’ ex «hacker» australiano divenuto una specie di arcangelo sterminatore delle comunicazioni riservate dei governi e dei centri di potere in genere, già annuncia nuove rivelazioni, stavolta in campo finanziario, capace di far crollare una delle maggiori banche Usa: una sorta di esecuzione a termine col bersaglio (probabilmente Bank of America) che dovrà agonizzare per almeno un mese. Assange, che ha acquisito da tempo tutte le carte e che le ha già fatte analizzare, dice, infatti, che farà partire la nuova offensiva solo all’ inizio del 2011. Le prossime settimane, evidentemente, dovranno ancora essere dedicate alle nuove puntate del cable gate. Quante saranno? Si procederà sempre su un doppio binario, con da un lato le informazioni rielaborate e interpretate dai giornali tradizionali e, dall’ altro, «file» grezzi messi a disposizione di tutti sul sito di Wikileaks? Nessuno lo sa con precisione: per adesso offrono di più i giornali – Der Spiegel, Le Monde, El Pais, oltre a Guardian e New York Times – che il sito, ma con Assange ricercato dalle polizie di mezzo mondo, il governo Usa che cerca di incriminarlo per spionaggio e i continui attacchi informatici, è certamente difficile fare programmi. Del resto c’ è molta incertezza anche sul fronte legale: nonostante l’ impegno del ministro della Giustizia Usa, Eric Holder, a incriminare i responsabili di Wikileaks, i giuristi ritengono che difficilmente potrà essere infranta la protezione offerta ad Assange dal primo emendamento della Costituzione, quello che vieta ogni limite alla libertà di informazione. Non ci sono prove che le informazioni segrete messe in circolazione sono state rese pubbliche per sabotare l’ America o, comunque, su mandato di un altro Paese. Lo stesso direttore del New York Times, poi, ha fatto notare che, almeno dal punto di vista della tutela dei soggetti citati nei cablogrammi, Assange è diventato molto più «garantista»: a differenza dei documenti su Afghanistan e Iraq, stavolta sono stati per primi quelli di Wikileaks a coprire i nomi più a rischio con degli omissis, prima di dar fuori i dispacci. Ma per le organizzazioni giornalistiche che hanno ottenuto il materiale di Wikileaks rimangono tutti i dubbi relativi all’ etica professionale e alle trasformazioni di un’ era magmatica: sedere su questo enorme giacimento di documenti riservati è evidentemente una grande opportunità ma anche la fonte di problemi che in passato non erano stati nemmeno immaginati. Fornire tutte le notizie con grande trasparenza è sempre stato il vangelo di ogni buon giornalista. Molti, però, oggi si chiedono fino a che punto sia giusto seguire Assange in quella che appare sempre più come una sorta di fede mistica nel potere purificante della trasparenza sempre e dovunque, fino al punto di negare l’ esistenza di un qualunque tipo di conversazione che si ha diritto di mantenere riservata. In fondo è, moltiplicato al quadrato, lo stesso dubbio che affligge tutto il mondo dell’ informazione da quando l’ irruzione di Internet e dei «blog» ha diffuso la cultura (o l’ illusione) della «casa di vetro»: non sarà che nel passaggio dalla ricerca della trasparenza possibile alla pretesa della trasparenza assoluta si rischia di produrre l’ effetto opposto?
I nuovi dilemmi dei giornalisti e l’illusione della “casa di vetro”
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