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La Cina detta le condizioni per salvare il dollaro

Il pugno: «Il sistema valutario internazionale dominato dal dollaro è un prodotto del passato» . La carezza: «Il renminbi sta dando un grosso contributo allo sviluppo economico mondiale, ma la sua trasformazione in una moneta internazionale comporta un processo dai tempi molto lunghi» . Il ruolo del dollaro come moneta di riserva del mondo, insomma, per ora non è minacciato. Le parole scritte dal presidente cinese Hu Jintao in risposta alle domande dei giornali Usa alla vigilia della sua visita ufficiale a Washington che inizia stasera, accentuano la frustrazione degli americani, la sensazione di essere ormai trattati dalla Cina come una potenza in declino. Siamo veramente alla vigilia di cambiamenti epocali? È vicino il giorno in cui pagheremo il petrolio in yuan (l’altro nome della moneta cinese) anziché in dollari? L’atteggiamento di Pechino non è certamente più quello umile esibito da Deng Xiaoping quando, trent’anni fa, aprì la Cina all’economia di mercato Pechino, né quello, prudente, che lo stesso Hu esibì nella visita ufficiale del 2006 in un’America ancora governata da Bush e non ancora travolta dalla tempesta finanziaria. Ma le sue parole di oggi, benché indigeste per il grande pubblico, non colpiscono più di tanto i mercati e l’amministrazione Obama. Che, dopo aver passato inutilmente tutto il 2010 a chiedere una rapida rivalutazione della moneta cinese, nei prossimi giorni incalzerà Hu soprattutto sulle questioni commerciali, le violazioni della proprietà intellettuale, gli ostacoli frapposti all’attività delle imprese americane che operano in Cina, il sistematico assistenzialismo di Stato di Pechino che altera la concorrenza. Si va facendo strada l’idea che, se non accettano di smettere di sostenere l’export tenendo lo yuan artificialmente basso, i cinesi la riduzione di competitività delle loro merci la subiranno attraverso un aumento dell’inflazione. Già oggi, del resto, a fronte di una rivalutazione delle monete dei Paesi emergenti rispetto al dollaro negli ultimi 24 mesi è stata del 40%per il real brasiliano, del 47%per il rand sudafricano e del 22%per won sudcoreano e rupia indonesiana, lo yuan ha recuperato solo il 3,6%. Ma, se si calcolano anche i differenziali d’inflazione, si arriva a un recupero di competitività a favore degli Usa del 10%. Per questo Obama, al momento di aprire il dossier economico del vertice, insisterà più sulle condizioni di accesso al mercato cinese e sulla creazione di posti di lavoro per le imprese americane, che sullo yuan. Sulle valute i margini d’intervento sono minimi: i mercati sanno che il gigante asiatico vuole diventare una potenza finanziaria capace di sganciarsi gradualmente dal dollaro, valuta nella quale oggi investe gran parte delle sue riserve. Con poco entusiasmo, viste le (criticatissime) politiche espansive della Federal Reserve che tiene bassi tanto i tassi d’interesse (e, quindi, i rendimenti) quanto le quotazioni del biglietto verde. Qui la domanda non è se Pechino cercherà di fare concorrenza a dollaro ed euro con uno yuan pienamente convertibile, ma quando e come. Le prime risposte sono venute nei mesi scorsi con le proposte delle autorità monetarie di Pechino di sostituire gradualmente il dollaro con una «valuta sintetica» , una sorta di paniere composto dalle principali monete mondiali, yuan compreso. Un altro passo è stato fatto la scorsa settimana quando il governo cinese ha autorizzato le sue società a usare lo yuan in transazioni effettuate all’estero per finanziare i loro investimenti. È un passaggio importante, come la creazione a Hong Kong di un mercato basato su prodotti finanziari denominati in yuan aperto agli investitori stranieri. Ma per decollare davvero, questa moneta dovrà non solo essere convertibile, ma dovrà rappresentare un’economia davvero affidabile. Oggi la Cina «fabbrica del mondo» che accumula riserve, finanzia il debito pubblico Usa e si offre di salvare l’euro, sembra solidissima. Molti economisti notano, però, che, in un mondo ormai totalmente interconnesso, il suo modello non è meno fragile di quello americano: «La Cina» spiega Nouriel Roubini su Newsweek, «può crescere rapidamente solo se i Paesi ricchi spendono più di quello che producono e accumulano grandi deficit. Ora che Usa e il resto dell’Occidente spendono meno e cercano di ridurre i debiti, la Cina forza la crescita non sostenendo (come dovrebbe) i consumi dei cittadini, ma spingendo l’acceleratore degli investimenti immobiliari, infrastrutturali e industriali per aumentare ulteriormente la capacità produttiva» . Un modello insostenibile che, se non verrà corretto, porterà allo scoppio di una bolla che certo non invoglierà i risparmiatori a scommettere sulla moneta cinese. Così stando le cose e visto che Hu non vuole o non può fare molto sul piano valutario (l’anno scorso aveva promesso una rivalutazione graduale del renminbi, ma era stato subito «corretto» da altri leader di Pechino, quest’anno ha già messo le mani avanti), a Obama non resta che puntare sulla difesa delle imprese Usa. Usando anche l’arma di un Congresso che minaccia ritorsioni protezioniste. Hu, che nel corso della sia visita andrà anche a Chicago a incontrare i capi della Boeing e a visitare investimenti cinesi negli Usa nel campo del risparmio energetico e dei componenti per auto, sicuramente annuncerà qualche affare come l’acquisto di nuovi aerei, carne e prodotti agricoli. Dovranno essere affari molto grossi per intaccare lo scetticismo americano, visto che il deficit commerciale Usa con la Cina ha superato i 250 miliardi di dollari.

Fonte: Corriere della Sera del 18 gennaio 2011

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