IL REFERENDUM di Mirafiori non chiude la vicenda Fiat, così come le elezioni di un Parlamento non pongono fine alla dialettica politica tra partiti contrapposti. Paragone percorribile se, però, alla fine si giunge a una composizione che assicuri la rappresentanza a tutti quelli che hanno votato per il Sì o per il No. Composizione che sarà facilitata se a tutte le parti in causa risulterà chiaro che Torino è stata teatro non di una dura vertenza sindacale ma di un’ aspra verifica per accertare se nella più grande impresa italiana esistano o meno le premesse per restare al tavolo mondiale della competizione automobilistica. L’ interrogativo che sottostà a questa come ad altre partite che si giocheranno ancora, è se l’ Europa è destinata a soccombere nello sconvolgimento della mondializzazione o se riuscirà, quanto meno, a ridisegnare un profilo in grado di reggere in condizioni nuove ma democraticamente garantite. A Mirafiori, invece, non lo si è compreso. La Fiat – dice Marchionne – non è riuscita a farlo capire ma resta da chiedersi il perché di tanta afasia (od arroganza inutile?), mentre l’ errore grave commesso, a mio avviso, dalla Fiom è stato di impostare la lotta solo sul piano dei diritti cosiddetti “indisponibili” e, quindi, non contrattabili come quelli della prima parte della Costituzione, quando si trattava invece di conquiste sindacali sacrosante. Sarebbe stato meglio, per contro, elaborare una piattaforma di scambio per ottenere in luogo delle modifiche al processo produttivo una partecipazione agli utili della produttività acquisita e in prospettiva una rappresentanza nel consiglio di amministrazione, non aliena, persino, a Marchionne. Certo, si sarebbe trattato di una rivoluzione culturale che avrebbe rovesciato il vecchio schema della lotta di classe come condizione permanente dei rapporti di lavoro. Siè visto, purtroppo, che non solo la Fiom ma l’ assieme della sinistra, divisa tra dubbi e fughe in avanti, non riesce – se mai vi riuscirà – a proporsi come guida di un processo di ripresa politica e sociale nella temperie causata dalla globalizzazione. Va, però, detto che una rivoluzione culturale della natura suesposta implica difficoltà grandissime. L’ Europa – in particolare quella nordica e occidentale, compreso lo spartiacque della nostra penisola – tra i soggetti della globalizzazioni, è quella più esposta alle penalizzazione perché è il continente con un livello di vita medio più alto, un Welfare più generoso e nell’ animo della gente introiettato come un diritto acquisito, condizioni di lavoro incardinate in un patrimonio di garanzie sindacali frutto di un secolo di lotte sociali. Un impianto che poteva reggere dietro l’ usbergo militare e politico atlantico, in un universo spartito tra mercato capitalistico, socialismo reale e terzo mondo in lento sviluppo. In pochi decenni tutto questo è scomparso e si è trasformato. Tutto scorre e supera vecchie frontiere pressoché in disuso: uomini, capitali e informazioni. Sconquassi finanziari, conflitti terroristici, migrazioni di massa segnano l’ epoca in corso. L’ Europa sembrava aver imboccato con l’ Unione economica e monetaria una strategia nuova e vincente per stringere i ranghi, allargati anche ad Est, rinnovare se stessa, darsi una missione a livello della sua dimensione e della sua storia. Poi la paura ha preso il sopravvento, il cantiere europeo è rimasto a metà, la nostalgia di una difesa impossibile delle strutture passate ha inquinato le menti, l’ incertezza del presente, il timore del rischio e l’ incapacità di immaginare un futuro hanno rattrappito ogni strategia vincente volgendola in diffidenza, odio per l’ altro, smarrimento di antiche solidarietà. Da questo punto di vista il referendum di Mirafiori ha un precedente molto più imponente ma che dal punto di vista analogico gli si attaglia come un guanto, anche se l’ esito è stato l’ opposto: il referendum che nel maggio 2005 col 54,6% di No bocciò in Francia la costituzione europea e tarpò ogni slancio all’ Unione. Lo slogan che unì una parte della sinistra, compresa un’ ala del Ps, all’ estrema destra lepenista, fu la “paura dell’ idraulico polacco” e, cioè, della cosiddetta direttiva Bolkestein che avrebbe permesso ai lavoratori comunitari di prestare la loro attività anche provvisoriamente negli altri Stati dell’ Ue, restando sotto il regime previdenziale del Paese d’ origine. La Polonia era appena stata ammessa all’ Ue e le plombier polonais a buon mercato divenne lo spauracchio non solo degli artigiani francesi ma dei ceti che si sentivano più esposti alla concorrenza. In conseguenza della vittoria dei No l’ euro restò appeso alla Banca centrale di Francoforte senza neppure un embrione di governo europeo in grado di orientare la politica economica. Negli anni che seguirono la paura dell’ emigrazione, la diffidenza verso l’ Europa, le nostalgie nazionaliste e razziste hanno messo il vento nelle ali della destra estrema dall’ Olanda alla Scandinavia, dall’ Austria all’ Ungheria. Da noi la Lega controlla il governo dalla roccaforte padana. Ora, tra l’ altro, stiamo andando verso le elezioni presidenziali in Francia. Sarkozy è in difficoltà a i sondaggi danno i lepenisti, guidati dalla figlia del vecchio leader, una bionda e prestante capo popolo, in rimonta al 16-17%. Ecco qualche slogan del suo ultimo discorso: “L’ Europa di Bruxelles ha imposto ovunquei distruttivi principi dell’ ultra liberalismo e del libero scambio a spese dei servizi pubblici, dell’ occupazione, dell’ equità sociale e della stessa crescita economica. Mentre la crisi e la globalizzazione imperversano e tutto crolla, resta solo lo Stato … che deve ritrovare il suo ruolo regolatore nel campo economico e riappropriarsi del controllo di alcuni settori strategici come l’ energia,i trasporti e, se necessario, le banche insensibili ad ogni appello etico.” Non vedo differenza tra queste parole d’ ordine e quelle espresse, con minore vigore e forza di convincimento, da una parte notevole della sinistra. Con un solo spartiacque: il razzismo e la deriva populistica nelle sue varie espressioni, destinate a livello dell’ opinione pubblica elementare a giocare a favore della demagogia di destra che usa la paura dell’ altro come una indecente arma impropria. Di fronte al possibile aggravarsi della crisi economica rischia in prospettiva di riprodursi il paradigma che portò negli anni Trenta le destra al potere in mezza Europa. Eppure una via d’ uscita c’ è: non si tratta, affatto, di affrontare la crisi portando le nostre condizioni di lavoro a livello dei cinesi, bensì di innalzarle a livello dei tedeschi. La Germania, sia nella versione Merkel che in quella socialdemocratica, ha dimostrato di saper reggere, sul piano della difesa della democrazia e di una forte economia con i salari più alti d’ Europa, grazie a una salda ideologia riformista, basata su quella “economia sociale di mercato” o “modello renano” che dir si voglia, che vede ormai da decenni, in un rapporto, di volta in volta, collaborativo oppur conflittuale, non di principio ma ancorato a una presa d’ atto della congiuntura economica e regolato dalla cogestione, il meccanismo di una dinamica di progresso. L’ altro pilastro è quella “religione della moneta”, che dopo due inflazioni devastanti, si è tramutato in una seconda natura della Germania. La nostra sinistra che per decenni si abbeverò al mito sovietico, per restare alla fine deprivata da ogni idea di futuro, dovrebbe ritrovare nell’ esperienza pratica e nei principi orientativi della democrazia tedesca, le fonti per un rilancio di un riformismo forte e di nuovi diritti, non in difesa di fortini diroccati ma all’ attacco per nuove frontiere politichee sindacali.
Fonte: Repubblica del 21 gennaio 2011L’Europa e la globalizzazione
Gennaio 21st, 2011
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L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
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