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Davos, top manager ottimisti ma non gli italiani

In questa gelida Davos, dove di Italia si parla poco e l’Italia parla poco, il primo dato che emerge al World Economic Forum che sta appena per cominciare, è la diversità del nostro paese. Che al contrario della maggior parte degli altri non crede nel futuro. PricewaterhoseCoopers ogni anno apre i lavori del Forum presentando un sondaggio tra i capi azienda di tutto il mondo (quest’anno a rispondere sono oltre 1.200) ai quali, come prima domanda, viene chiesto cosa si aspettano dai prossimi dodici mesi. Ebbene, mentre mediamente uno su due prevede un amento dell’attività della propria azienda, tra gli italiani – risultato peggiore di tutto il sondaggio – a vedere affari in crescita è solo uno su cinque.
E’ la certificazione, se ce ne fosse bisogno, che l’Italia esce dalla crisi peggio della maggior parte degli altri paesi del pianeta, e nonostante le venga ripetuto spesso il contrario, lo sa. Per gli altri gli anni più neri sono alle spalle. A trainare l’ottimismo sono ovviamente i paesi emergenti, Cina, India, Brasile, Turchia, Thailandia, persino Perù e Colombia. Gli Stati Uniti fanno la loro parte, l’Europa è più indietro, con l’eccezione vistosa della Germania, dove il numero dei capi azienda che si aspettano ancora crescita ha toccato un nuovo record, e Austria. Gli altri languono e, tra tutti, l’Italia di più.
E’il primo assaggio di questa kermesse che vedrà sfilare, per citare solo alcuni, Sarkozy e Cameron, Naoto Kahn e Tim Geithner, il presidente del Sud Africa Jacob Zuma e quello del Messico Felipe Calderòn oltre a tutti o quasi i numeri uno del business mondiale. Tra gli italiani parleranno in uno o più delle decine di incontri il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, forse il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, i banchieri Corrado Passera e Alessandro Profumo, la star Roberto Bolle, mentre ai meeting riservati parteciperanno Domenico Siniscalco, Renato Poli, Emma Marcegaglia e pochi altri. L’accoglienza, sotto una neve rada e leggera, è una giovane cronista televisiva russa, che porge il microfonoe chiede quale sarà l’impatto della tragedia di Mosca sulla percezione della Russia come destinazione degli investimenti. La cronaca arriva fin quassù.
Almeno fino a un certo punto. Del fuoco che divampa nell’Africa mediterranea, che sarà probabilmente il tema politico – e non solo – dell’anno, almeno a stare al programma si parlerà poco. Terrà banco “il grande spostamento”, il trasferimento rapidissimo di ricchezza e di potere da ovest verso est, dai paesi industrializzati a quelli che ci ostiniamo a chiamare emergenti. La stessa PricewaterhouseCoopers prevede in uno dei suoi documenti (l’ultimo pubblicato della serie “The World in 2050: a shift in economic power”, ovvero “Il mondo nel 2050: uno spostamento del potere economico”) che le economie emergenti di Cina, India, Brasile, Russia, Messico, Indonesia e Turchia, appena battezzate E7, supereranno in termini di prodotto interno lordo il G7 prima del 2020. Cioè domani.
Scomparsi dall’agenda la paura della ricaduta in recessione e quella della deflazione, non ancora comparsa quella dell’inflazione, i temi chiave sono le prospettive dell’economia americana, la sostenibilità dei debiti sovrani in Europa e negli Stati Uniti, che insieme all’ultimo, ma non per importanza, il lavoro, sono la fonte dei timori maggiori. Il lavoro emerge da protagonista come il problema dei problemi. Ma non è il caso di illudersi, la soluzione non sarà trovata a Davos.

Fonte: Repubblica del 26 gennaio 2011

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