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Inflazione la paura viene dalla Cina

L’origine dei rincari nei prezzi agricoli al quale da un anno assistiamo si deve a un misto di scarsità dovuta in specie a fattori climatici, e di speculazione da parte di istituzioni finanziarie che, prive di guadagni alternativi per via della crisi delle economie sviluppate, si sono buttate su materie prime e prodotti agricoli.
In Cina infuria una siccità epocale. Lo stesso accade in Argentina. In Russia tutti ricordano i roghi di campi di grano causati la scorsa estate dalla ondata di calore africano che la investì. Tutto questo si scarica sui prezzi. Gli speculatori lo sanno e si precipitano a scommettere su rincari ulteriori, e per un periodo che può essere anche lungo, le due cause dei rincari si alimentano a vicenda. I prezzi dei prodotti agricoli sono anche rafforzati dalla domanda nei due principali paesi asiatici, la cui popolazione congiunta sfiora tre miliardi di persone. L’agricoltura indiana è in condizioni precarie, afflitta da una bassa produttività storica. Fu disegnata, dai pianificatori indiani, per mantenere la gran parte della popolazione sulla terra e non per massimizzare la produzione. Per cambiare rotta a questo mastodonte ci vorranno molti anni e molti soldi. Il caso cinese, invece è dovuto al cambiamento climatico, che ha visto in pratica l’esaurirsi dell’acqua nel sud del paese e anche al cambiamento di dieta che si sta verificando, verso cibi occidentali non prodotti a sufficienza in Cina.
Ma gli aumenti non riguardano solo i prodotti agricoli. Sui mercati mondiali il prezzo del petrolio, ad esempio, stava salendo da un anno, prima che i tumulti africani e mediorientali ne rafforzassero ulteriormente la corsa. Aumenti notevolissimi hanno registrato minerale di ferro, cotone, lana e tutti i tipi di oli vegetali. In breve, le quotazioni della gran parte di questi prodotti sono tornate ora assai vicine ai livelli che raggiunsero nel 2008, prima che si abbattesse sull’economia mondiale la grande crisi.
I livelli degli indici generali dei prezzi al consumo, quindi, hanno mostrato lo stesso andamento prima e durante la crisi, nei paesi emergenti e in quelli sviluppati. Ma nei primi tali livelli sono, pur fluttuando nel 2009 verso il basso, rimasti assai alti, perché la recessione dei paesi sviluppati li ha colpiti poco e per poco tempo. Nei paesi sviluppati, invece, i prezzi già non erano saliti molto durante il boom concluso nel 2008. Sono scesi per effetto della crisi e ora sembrano mostrare segni di aumento. Su tali segni si è scatenata la bagarre dei mezzi di informazione, con toni allarmati che, per chi ha più di cinquant’anni e ricorda gli anni settanta e ottanta, suonano tra l’irreale e il ridicolo. Stiamo parlando, infatti, di aumenti del 2,5% per la zona euro e di un po’ di più per gli Stati Uniti.
Il tema principale che sembra essere preferito da economisti, governanti e media è quello della possibilità che dalla Cina gli aumenti dei prezzi si possano trasferire ai nostri paesi, tramite il rincaro dei prezzi delle esportazioni cinesi.
In effetti, l’inflazione in Cina, dove i consumi di prodotti alimentari sono una percentuale dei consumi totali parecchio maggiore che nei paesi più ricchi, e le materie prime importate sono una quota molto importante dei costi dei prodotti di esportazione, è divenuta minacciosa. La spinge anche la crescita vorticosa dell’economia cinese e i rincari dei costi alimentari si sono, col favore della congiuntura che non sembra cedere, già trasferiti sulle richieste salariali della enorme massa dei lavoratori cinesi, specie di quelli occupati nell’industria di esportazione.
Ma riusciranno tali rincari a trasferirsi sui prezzi ai quali i cinesi vendono le proprie merci all’estero? E saranno, tali eventuali aumenti, traslati da importatori occidentali sui prezzi finali al dettaglio? Non è un mistero che i ricarichi sui prezzi ai quali gli occidentali comprano i prodotti cinesi sono molto alti. Sulla Cina sono in tanti, in Occidente, a guadagnarci lautamente. Se costoro preferiranno assorbire i rincari all’origine o passarli ai consumatori occidentali dipenderà dalle condizioni di concorrenza sui vari mercati e specialmente dalle condizioni della domanda nei paesi occidentali. In altre parole, solo se le economie sviluppate accelerano il ritmo, ora assai anemico, della loro ripresa, i venditori di prodotti cinesi potranno permettersi di trasferire sui prezzi al dettaglio gli aumenti subiti all’origine.
I prezzi che veramente contano per l’economia europea restano quelli dei prodotti energetici, petrolio e gas, per i quali la produzione locale è scarsa. Su questi prodotti influisce anche la speculazione, che però dona alle quotazioni enorme volatilità. Grandi ribassi seguono grandi rialzi. Se dunque la situazione in Nord Africa e Medio Oriente migliora, è del tutto possibile che le quotazioni del greggio precipitino, come già in passato fecero.
Quanto al gas che, per la dissennata politica energetica dei due passati decenni, è diventato il principale alimentatore delle centrali elettriche italiane, il suo prezzo è in cedimento strutturale da un paio d’anni, da quando si sono dimostrate realistiche e a basso costo le nuove tecnologie di sfruttamento degli scisti presenti in molte parti del mondo occidentale. I produttori faranno di tutto per invertire questo trend sfruttando i tumulti africani e mediorientali, ma non è detto che ci riescano.
Ma esistono motivi interni per temere che l’inflazione si riaccenda in maniera significativa anche nei paesi sviluppati dell’Europa e negli Stati Uniti? Qualcuno ha cercato di rispondere usando il modello monetarista. Si parte dal fatto che la ripresa, in Europa e in particolare negli Stati Uniti, non sembra riesca a incidere, in maniera significativa, sulla massa dei disoccupati creata dalla crisi. Il Pil è tornato a crescere, specie negli Stati Uniti, ma le imprese non hanno ricominciato ad assumere, dopo che erano state prontissime a licenziare. La ripresa è dovuta, specie negli Usa, a una massiccia immissione di risorse da parte dello stato e della banca centrale, fatta gonfiando a dismisura il bilancio di quest’ultima, che ora contiene enormi quantità di carta finanziaria privata di qualità incerta.
Il riflesso degli aumenti delle materie prime industriali e del petrolio sui prezzi ha di recente portato ad un prematuro, anche se per ora flebile, riaccendersi dell’inflazione. Dal bilancio dello stato non c’è da attendersi se non una persistenza e persino, un peggioramento dei deficit. Si paventa dunque il ritorno della stagflazione, la compresenza di disoccupazione, inflazione e bassa crescita.
Si teme che permanendo la disoccupazione le autorità, specie quelle americane, ma anche quelle europee, si convincano della necessità di ulteriori iniezioni di liquidità nell’economia, per accelerare la ripresa. Ma questa politica, si afferma da parte dei critici che partono da posizioni monetariste, non considera che si è verificato, tra il 2008 e il 2009, un profondo cambiamento strutturale che interessa il mercato del lavoro. E’ venuto meno, si dice, probabilmente per molti anni avvenire, il credito a buon mercato che finanziò il boom degli scorsi venti anni. Esso aveva permesso, tramite le fantasiose invenzioni dei maghi della finanza, al settore edilizio, ad esempio, di crescere a velocità incredibile in molti paesi, occupando milioni di lavoratori. Il crollo della artificiosa impalcatura finanziaria ha chiuso questa fonte di credito. Le banche si sono trovate a dover tirare radicalmente i remi in barca e per anni non si permetteranno di ripetere la cavalcata delle cartolarizzazioni. Una parte cospicua della disoccupazione sarebbe dunque strutturale. Se le autorità monetarie cercano di farla diminuire dando nuova liquidità al mercato il risultato deve essere una accelerazione dei prezzi.
I monetaristi temono che, dopo che essa sia avvenuta, come risultato di una errata politica di lotta alla disoccupazione, che non ne ha capito la nuova natura, l’acuirsi della inflazione induca le stesse autorità, spinte da una opinione pubblica alimentata dall’oltranzismo repubblicano dei tea party, a invertire a un tratto la rotta monetaria, premendo sul freno e inducendo una nuova recessione. Si cita l’esempio degli anni trenta, quando la Fed per l’appunto, tirò le redini troppo presto temendo che la ripresa generasse inflazione e fece precipitare l’economia in una nuova recessione che durò fino all’arrivo della seconda guerra mondiale.
Questa visione del mondo è abbastanza realistica, per quando riguarda gli Stati Uniti. Lo stato della finanza pubblica, specie di quella locale, è talmente comatoso, da dover richiedere interventi che peseranno su deficit federale e debito pubblico. Se ad esso si aggiungono spinte all’inflazione del tipo già adombrato ed altre esogene, ne seguirà probabilmente un tentativo di ridurre l’inflazione stessa per via monetaria, con risultati assai negativi sulla crescita dell’economia.
Forse è invece più da temere l’adozione di misure monetariste in Cina dove l’inflazione preme seriamente e può indurre le autorità, incapaci di fermarla con misure dirigistiche, a provare a romperle le reni con una stretta monetaria. Questa, come sempre accade, magari curerà la malattia, ma al costo di ridurre il paziente, l’ economia reale cinese, in condizioni precarie. La politica monetaria, lo si ripete da decenni, non lavora col bisturi ma con l’accetta. Le conseguenze, ad esempio per le esportazioni tedesche di beni di investimento e automobili di lusso in Cina e dunque per la domanda in tutta Europa, sono facili da immaginare.
Per questo, sempre mantenendo il modello monetarista, ma estendendolo ai suoi effetti internazionali, i cinesi continuano a deprecare la politica monetaria espansiva degli Stati Uniti, che esporta inflazione nel loro paese. Ma ora anche da parte di fornitori di materie prime e prodotti agricoli alla Cina, come il Brasile, si consiglia al Dragone di rivalutare la propria moneta perché la domanda cinese induce inflazione anche da loro. Si spera in un atterraggio morbido del volo del Dragone, senza bisogno di un traumatico finale a colpi d’accetta.

Fonte: Affari e Finanza del 28 febbraio 2011

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