Dopo le rivolte in Medio Oriente, gli ideologi neocon rialzano la testa. Ma il Pentagono: rischiosa un’ azione militare.
Non ci sono solo alcuni vecchi «neocon» e qualche polemista di destra come Charles Krauthammer a sostenere che le rivolte in Medio Oriente e Nord Africa restituiscono legittimità alla freedom agenda di George Bush e forse sono addirittura, almeno in parte, frutto di quel germoglio. C’ è anche la Foreign Policy Initiative, il gruppo nato due anni fa sulle ceneri del Project for the New American Century (il «pensatoio» fondato nel 1997 da Bill Kristol e Robert Kagan, culla del pensiero neoconservatore) che una decina di giorni fa ha chiesto a Barack Obama di intervenire subito in Libia usando anche la forza militare. Un appello firmato da 45 esperti e politologi tra i quali gli stessi Kristol e Kagan, l’ ex viceministro della Difesa (e ideologo dell’ attacco per rovesciare Saddam in Iraq) Paul Wolfowitz e diversi analisti che ebbero ruoli-chiave nell’ amministrazione Bush. Stavolta, però, il clima è molto diverso da quello del 2002-2003, e non soltanto perché alla Casa Bianca c’ è un presidente democratico, anche se deciso a continuare la lotta contro il terrore in Afghanistan con una durezza perfino maggiore rispetto al suo predecessore repubblicano. In nome della libertà e di una nuova visione dell’ «interesse strategico» degli Stati Uniti, il segretario di Stato, Hillary Clinton, proclama ora l’ appoggio di Washington ai fermenti che si avvertono quasi ovunque nel mondo arabo, anche quando minacciano Paesi governati da alleati dell’ America. E Obama intima a Gheddafi di «andarsene subito», ribadendo che sta esaminando varie opzioni d’ intervento come l’ istituzione di una «no-fly zone» sopra la Libia. Ma il presidente si muove con grande cautela, afferma che qualunque decisione andrà condivisa con la comunità internazionale (la Nato e l’ «ombrello» dell’ Onu o, almeno, di alcuni influenti Paesi musulmani), mentre due personaggi che dovrebbero godere della massima considerazione nel mondo conservatore – il capo del Pentagono Robert Gates, nominato da Bush e confermato da Obama e l’ ammiraglio Michael Mullen, capo delle forze armate Usa – hanno sottolineato che ogni intervento militare in Libia sarebbe estremamente complesso, impegnativo e il suo esito incerto: i mezzi a disposizione sono, infatti, limitati, visto che il dispositivo militare Usa è già in gran parte impegnato negli altri «punti caldi» del mondo. Insomma, la correzione di rotta di Obama e della Clinton, (che sicuramente c’ è) si traduce nel riconoscimento di non aver appoggiato adeguatamente i movimenti democratici emersi negli ultimi due anni nel mondo arabo e in Iran, ma non arriva fino al punto di sposare un’ agenda «interventista». Perché? Perché l’ esperienza di nove anni di guerra in Afghanistan e Iraq ha spazzato via illusioni e schematismi ideologici dei «neocon». Perché il vasto impegno di forze armate Usa all’ estero è osteggiato anche da una parte della destra, quella radicale dei «Tea Party», che ha un’ anima molto «local» e vuole tagli imponenti della spesa pubblica in ogni campo, compreso, almeno in parte, quello militare. E poi perché stavolta, al di là della Casa Bianca, la causa interventista ha perso l’ appoggio di quell’ influente pattuglia di intellettuali di sinistra che, sull’ onda dell’ «intervento umanitario» deciso da Bill Clinton alla fine degli anni ‘ 90 nella penisola balcanica (prima i bombardamenti per difendere Sarajevo, poi l’ occupazione del Kosovo), dopo l’ 11 settembre si erano schierati a favore dell’ attacco non solo in Afghanistan ma anche in Iraq, guadagnandosi l’ appellativo di «falchi liberal». L’ ex direttore del New Republic Peter Beinart, che nel 2006, in pieno conflitto iracheno, fece rumore col suo saggio «The Good Fight», (la guerra giusta), oggi ammette di avere sbagliato: dice di essersi fatto convincere che, con la minaccia incombente del terrorismo jihadista, «fosse necessario agire per bloccare un’ incombente minaccia militare e ideologica». Invece, ha scritto di recente Beinart, «quello che sta accadendo ora in Medio Oriente dimostra che il tempo era dalla nostra parte: militarmente perché Saddam non aveva armi di distruzione di massa mentre Al Qaeda non è più riuscita a organizzare attacchi in grande stile dopo quello alle Torri Gemelle, e politicamente per la crescente pressione delle giovani masse arabe e iraniane alla ricerca di libertà». Non tutti hanno cambiato rotta in modi così repentini e molti continuano a pensare che in alcune circostanze l’ ingerenza umanitaria sia ancora proponibile, ma sicuramente la dolorosa esperienza in Iraq e Afghanistan ha reso tutti più prudenti. «Quello che è accaduto in quei due Paesi, e la grave crisi economica e di finanza pubblica in cui si dibatte l’ America rendono il Congresso e il popolo americano assai poco desiderosi di imbarcarsi in altre avventure militari» ammonisce lo studio della Georgetown University e del Council on Foreign Relations, Charles Kupchan. «Le sanzioni diplomatiche ed economiche sono necessarie, ma l’ opzione militare secondo me è da escludere». Paul Berman, forse il più autorevole sostenitore dell’ «interventismo democratico» che, col saggio «Terrore e liberalismo», influenzò molti altri intellettuali, non ha certo rinunciato alle sue tesi, ma, pur riconoscendo di aver approvato in linea di principio il rovesciamento di Saddam, ha poi criticato il modo in cui è stata condotta la guerra e l’ abdicazione di Bush ad alcuni principi liberali. Un altro studioso che, pur senza compiere alcuna inversione ad U, influenza con le sue analisi il dibattito sulla democratizzazione del mondo arabo è Bernard Lewis. Considerato il più autorevole studioso dell’ Islam vivente, Lewis, con le sue tesi sulla scintilla di modernizzazione del Medio Oriente che certamente sarebbe scaturita da un cambio di regime a Bagdad, fornì, forse involontariamente, un potente alibi intellettuale all’ invasione dell’ Iraq. Oggi, però lo studioso angloamericano di Princeton, 94enne ma sempre lucidissimo, smonta almeno in parte la «freedom agenda» sostenendo che «ci sono cose come la libertà e la democrazia che non si possono imporre». Una revisione iniziata nel 2008 e che oggi lo porta a dichiarare che se i movimenti democratici nel mondo arabo vanno certamente incoraggiati, tuttavia è sbagliato pensare alle elezioni come un toccasana. Va ancora più in là l’ analista dell’ Atlantic Robert Kaplan, che distingue tra dittature feroci – come quelle di Teheran e Tripoli – e dittature benevole. E sostiene che queste ultime (tra le quali inserisce i regimi «illuminati» dell’ Oman e della Giordania) non vanno combattute. Un eccesso di pragmatismo al quale molti intellettuali del mondo conservatore si ribellano: non solo la «vecchia guardia» di Daniel Pipes, ma anche un esponente moderato come David Brooks. Il «columnist» conservatore del New York Times ha appena riesaminato – e a suo modo demolito – le tesi di Samuel Huntington sul conflitto delle civiltà: secondo Brooks i fatti di queste settimane dimostrano che quell’ analisi era sbagliata: «Le aspirazioni degli uomini tengono sempre aperto il libro della storia». Chi oggi si trova a doverne scrivere una nuova pagina, però, deve prendere atto che negli ultimi anni né la vecchia cinica «realpolitik», né l’ idealismo dei «neocon» e dei «falchi democratici» hanno portato a buoni risultati. Promuovere il cambiamento è doveroso, ma farlo con l’ uso della forza è assai problematico, se non altro perché nel mondo, attesta l’ Economist Intelligence Unit, un istituto di ricerca britannico molto autorevole, a fronte di 26 democrazie «piene» ci sono 53 democrazie «ibride» (cioè con alcune caratteristiche illiberali) e 88 dittature.
Libertà e mondo arabo, la battaglia degli intellettuali
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