CHI abbia avuto in queste serate la disavventura di ascoltare i dibattiti nelle nostre reti tv sulla catastrofe giapponese avrà notato come gli esponenti filo governativi ma non solo, si dilunghino nello scongiurare gli italiani dall’ abbandonarsi alla emotività o a non meglio identificate speculazioni ideologiche sulle scelte nucleari. Se, però, cambiamo canale – o a volte nel corso della medesima trasmissione, quando subentrano i notiziari – ci si imbatte in visioni di tregenda e nel terrorizzante annuncio che la nube radioattiva si sta pericolosamente avvicinando a Tokyo, una metropoli di 12 milioni di abitanti. Per cui l’ enormità del pericoloè tale che chi non sembra disposto a riesaminare questa questione appare affetto da uno smarrimento totale della percezione della realtà. Oppure preda di un automatismo accecante di appartenenza partitica, analogo a quello di chi seguiva fiducioso Mussolini, quando questi, dopo aver dichiarato guerra a mezzo mondo, compresi gli Usa e l’ Urss, asseriva, alla vigilia del crollo: «Noi tireremo diritto!». Un paragone, naturalmente, che vale come assonanza della psiche politica, non come equivalenza storica. In quale altra ottica leggere altrimenti le certezze assertive del neo ministro Paolo Romani o della leggiadra Prestigiacomo sulla bontà e intangibilità del piano di rientro del nostro Paese nella tecnologia nucleare? Si può solo felicitarsi che la tempistica burocratica italiana abbia fatto sì che la legge, varata da Berlusconi nel 2008, sia solo ai primissimi approcci, tanto che il direttivo dell’ Ente per la sicurezza atomica, presieduto dal professor Veronesi, instaurato per l’ occasione, non ha ancora trovato una sede e si è riunito in un bar. C’ è, dunque, la speranza di fermare un disegno nato all’ insegna dell’ improvvisazione e dell’ impreparazione. La possibilità è offerta dal referendum che si dovrebbe svolgere fra tre mesi e che, senza lo spaventoso allarme venuto dal Sol Levante, non avrebbe probabilmente raggiunto il quorum. A questo punto, peraltro, le emozioni e le ragioni debbono confluire in una visione delle cose che non confonda e non sovrapponga l’ idea dello sviluppo economico e tecnico con l’ idea del progresso civile dell’ uomo. E questo vuol dire in primo luogo chiedersi se ai fini del progresso non sia preferibile un modello basato sul risparmio e l’ efficienza energetica, obbiettivi da tempo abbandonati, ma dagli esiti assai più corposi delle pur valide fonti alternative, piuttosto che tornare ad imboccare la presunta scorciatoia nucleare, vivendo però all’ ombra di un rischio smisurato. Ed ancora: non è il caso, prima di “tirare diritto”, verificare in termini reali e veritieri lo slogan dei sostenitori del nucleare come apportatore di “più sicurezza, più ambiente, più convenienza” ? Non può essere, come argomenta uno dei più autorevoli economisti industriali italiani, Alberto Clò, che ciò si traduca «in un ulteriore enorme dispendio di risorse?». Si dia spazio, quindi, a una discussione apertae democratica, non ingabbiata nei siparietti televisivi, diretti da conduttori, partigiani dell’ una o l’ altra tesi. Vorrei, a questo punto, ricordare il precedente americano. È infatti in Usa, a Three Mile Island, che nel 1979 ebbe luogo il primo grave incidente, con fusione del nucleo, contenuto fortunatamente in extremis all’ interno degli involucri contenitori. La paura fu grande, pur se non ci furono vittime dirette, ma i tecnici che sovrintendettero allo spegnimento ammisero che ciò non bastava «a provare che l’ effetto temuto fosse per ciò stesso impossibile». Dopo di che l’ “emotività” americana ebbe l’ effetto di fermare per trent’ anni la costruzione di qualsiasi nuova centrale. Solo un anno fa Obama autorizzò un prestito per avviarne un’ altra. Gli eventi di Fukushima stanno rimettendo in discussione il progetto, è riemersa l’ “emotività” e subito si è riunita una commissione bipartisan del Congresso la quale, tanto per mettere le mani avanti, ha ricordato che «la raccolta di scarti nucleari in un’ area a rischio sismico come la faglia di Sant’ Andrea (California) non è più tollerabile». Avviso che investe una delle questioni centrali della sicurezza, la quale dipende solo in parte dalla modernità dell’ impianto, il cui grado di sicurezza allo stato delle cose non è mai al 100%. Un terremoto di scala eccessivamente alta, un maremoto o anche un errore umano possono pur sempre superare le soglie di garanzia. A quel punto non esiste limite misurabile nello spazio e nel tempo per le catastrofi che possono sopravvenire. E l’ Italia, checché ridicolmente è stato affermato dagli esperti, è uno dei paesi europei a più alto ed esteso rischio sismico. Ancora per quanto concerne l’ Italia, in tv è stato tutto uno sventolio di carte d’ Europa con segnati i siti nucleari in Francia o in Slovenia, con l’ aggiunta che i venti non possono essere bloccati ai confini. È vero, ma altrettanto vero è che la distanza attenua fortemente l’ impatto, che anche nel caso di Cernobyl è andato via via decrescendo ad ogni km di allontanamento, tanto da non investire né Kiev, capitale dell’ Ucraina, e tanto meno Mosca. Resta, invece, il problema della previsione del rischio. Ed è proprio l’ incommensurabilità del rischio nucleare che spinse Repubblica (8 maggio 1986), pochi giorni dopo Cernobyl (26 aprile), a rovesciare la linea filo nucleare che fino allora, come quasi tutta la sinistra, impregnata dall’ idea dell’ “Atomo per la Pace”, avevamo sostenuto, contro l’ atomo della Bomba. Eugenio Scalfari intitolò l’ articolo che mi aveva commissionato “La nube sopra di noi, il dubbio dentro di noi”. Spiegavo che dopo Cernobyl mutava radicalmente il giudizio sulla pericolosità accettabile, connessa ad ogni progresso tecnologico, poiché, mentre per tutte le altre tecnologie, le inevitabili catastrofi, quali ne siano le dimensioni, hanno effetti tragici e distruttivi una tantum (la caduta di un aereo, il crollo di una diga, l’ incendio di una miniera o anche un maxi incidente stradale), così non è per l’ incidente nucleare con fuoriuscita di materiale radioattivo. In questo caso può scatenarsi un processo di dimensioni e conseguenze imprevedibili che stravolge il concetto stesso di accettabilità dei rischi. Essi non possono essere misurabili a priori, non se ne può prevedere neppure per approssimazione l’ ampiezza, la durata, la dislocazione, la gravità, tantoè vero che le società di assicurazione, disposte a coprire qualsiasi impresa, rigettano l’ ipotesi di garantire eventi non misurabili a priori. Il rischio è, dunque, accettabile se misurabile e comparabile ai vantaggi che l’ iniziativa, anche la più azzardata, comporta; non così l’ incertezza assoluta. Rispondendo, poi, ai propugnatori di una specie di determinismo scientifico, secondo cui l’ uomo, una volta raggiunta una soglia di tecnologia, di consumi e di modalità di vita ad essi correlata, non può più tornare indietro, contrapponevamo qualche esempio inverso, come il ritiro dei jet supersonici a causa dei danni ecologici che comportava col “Concorde” coprire la rotta Europa-Usa in tre ore, od anche il successo delle misure e campagne antifumo attuate dal governo di Washington, una volta accertato il rapporto cancro-fumo. E concludevo: «Non è una prova di sfiducia nella capacità dell’ uomo di autogovernarsi immaginare che sia impossibile riconsiderare i dati di fondo dello sviluppo energetico, accettarne i costi, dedurne comportamenti diversi da quelli che sembrano acquisiti ?».
Fonte: Repubblica del 17 marzo 2011Quel dubbio dentro di noi
Marzo 17th, 2011
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L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
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