Barack Obama ha un motivo in più per chiedere ai suoi generali di chiudere rapidamente la partita dell’attacco aereo alla Libia: l’ostilità che sta montando in un Congresso che si è sentito tagliato fuori da una scelta cruciale. Un malessere diffuso ma che non dovrebbe deflagrare in un conflitto tra esecutivo e legislativo, anche se in queste ore si assiste a una sorprendente saldatura tra le due frange estreme – i «Tea Party» a destra e i «liberal» radicali a sinistra – che giudicano «incostituzionale» la decisione della Casa Bianca di autorizzare i bombardamenti senza un «ok» del Parlamento. Paradossalmente gli attacchi più duri a Obama sono quelli che vengono da sinistra: Dennis Kucinich, un deputato democratico dell’Ohio che contese la «nomination» a Obama, giudica incostituzionale l’attacco e, per bloccarlo, propone un emendamento alla legge di bilancio per vietare il finanziamento di azioni militari contro la Libia. Un altro ex candidato presidenziale, il vecchio portabandiera dei radicali Ralph Nader, va ancora più in là: chiede l’«impeachment» di Obama per violazione della Costituzione.
In campo repubblicano le critiche a Obama sono più diffuse, ma sono anche meno aspre e molto contraddittorie: i radicali dei «Tea Party» si oppongono all’intervento, visto che, dicono, la Libia non rappresenta una minaccia diretta per gli Usa. Ci sono poi vari membri dell’«establishment» centrista come il senatore repubblicano dell’Indiana Dick Lugar e Mark Kirk dell’Illinois, per i quali Obama avrebbe dovuto rivolgersi preventivamente al Parlamento per motivi di opportunità politica, se non per un obbligo costituzionale (analoga posizione è stata presa in campo democratico da moderati come il senatore della Virginia Jim Webb e il capo del «caucus» del partito di Obama, John Larson).
Ma gli esponenti più autorevoli del fronte conservatore criticano il presidente per il motivo opposto: John McCain è favorevole all’attacco «contro il regime barbaro di Gheddafi», ma è arrabbiato con Obama perché «il governo si è mosso troppo tardi, a rimorchio dei nostri alleati». Anche Mitt Romney – ad oggi in pole position per la nomination repubblicana – ha rotto un lungo silenzio non per sollevare questioni costituzionali ma per accusare Obama di essersi mosso tardi, «in modo timido, incerto».
La Casa Bianca teme più un deterioramento del clima politico che le accuse di tipo legale. Il Consigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, Tom Donilon, ha spiegato più volte che il presidente ha agito entro i confini della legge che gli consente di ordinare azioni militari limitate nello scopo e nella durata: il voto del Congresso è necessario solo per le dichiarazioni dì guerra. Per questo Bush lo chiese per l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, mentre Bill Clinton, nel ’95, decise i bombardamenti per proteggere la Bosnia senza interpellare le Camere.
Ricostruendo le ore che hanno preceduto l’attacco, Donilon ha anche detto che, dopo il via libera dell’Onu, il presidente ha informato telefonicamente molti parlamentari e ha tenuto un briefing con alcuni leader dei due partiti nella situation room della Casa Bianca. Lunedì, infine, ha mandato una lettera ufficiale alle Camere nella quale spiega di aver agito nell’ambito dei suoi poteri dì comandante supremo delle forze armate.
Chi ha partecipato al briefing? La Casa Bianca non lo dice, ma è significativo che dei tre leader parlamentari repubblicani – Mitch McConnell, Eric Cantor e John Boehner – solo quest’ultimo ha detto qualcosa sulla Libia, limitandosi, peraltro, a chiedere a Obama di spiegare meglio le sue ragioni al Congresso.
il “mal di pancia” del Congresso che condiziona la Casa Bianca
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