DIETRO L’ACCORDO I costi sociali degli aggiustamenti di bilancio peseranno sui Paesi debitori e i costi elettorali sui Governi dei creditori di Carlo Bastasin Nel maggio 2010 la Grecia ha rischiato di fallire perché la cancelliera Merkel voleva contribuire al salvataggio solo in ultima istanza e possibilmente dopo il voto regionale in Vestfalia. Da allora ci sono voluti dieci mesi per preparare un “Grande Accordo” con cui chiudere la fase acuta della crisi nell’euro-area. Ma ancora ragioni di politica interna hanno rinviato l’intesa prevista per il Consiglio Ue di ieri e oggi. Helsinki, ostaggio dei populisti “Veri Finlandesi”, non vuole aumentare i fondi per l’aiuto fino alle elezioni di aprile. Berlino è contenta che l’accordo slitti a dopo il voto in Baden-Wuerttemberg di domenica. Inoltre vuole modificare i termini degli esborsi futuri perché non coincidano con il voto federale del 2013. Una data che era stata scelta apposta dalla cancelliera per inasprire le possibilità di default dei paesi indebitati prima delle elezioni tedesche. C’è sempre un voto più cruciale degli altri in questa fattoria degli animali. Nel frattempo ci sono stati il salvataggio in extremis della Grecia e poi dell’Irlanda e presto del Portogallo. Con il Consiglio Ue di ieri e di oggi si doveva chiudere una delicata fase in cui i paesi malati, per così dire, venivano curati per strada. Non c’era l’ospedale in cui ricoverarli. Per tenere in vita debitori che non avevano più accesso al mercato si era fatto ricorso a strumenti d’emergenza: gli acquisti di titoli da parte della Bce, i fondi della Commissione e noi quelli niù amni per la stabilità finanziaria amministrati attraverso la Ue, la Bce e il Fondo monetario. C’è voluto un anno per costruire una struttura più coerente. Un assetto che promette di prevenire nuovi squilibri attraverso maggiore coordinamento economico, più stretto controllo delle politiche fiscali e procedure sanzionatorie un poco meno aggirabili di prima. Un nuovo strumento di intervento in caso di crisi eviterà default disordinati e terrà viva la disciplina dei mercati sui debitori. Infine si spera che il terzo tentativo di stress test apra la fase della ricapitalizzazione delle banche. Il disegno dell’edificio ha senso, ma ciò non garantisce che sia solido se si dubita del cemento: la volontà politica. Il primo problema è di diagnosi. Grecia e Irlanda sono lungo-degenti. Avranno bisogno per anni del sostegno finanziario. Il rientro dal debito avverrà se il tasso di interesse che pagheranno sarà inferiore al tasso nominale di crescita della loro economia. Le riforme che stanno facendo sono ammirevoli, possono alzare il livello della crescita, ma i tassi a cui si finanziano coni fondi di stabilità sono vicini al 6% (quelli di mercato sarebbero doppi), troppo per essere ottimisti su un’inversione di rotta del debito entro due anni, come previsto dalla troika (Ue-Bce-Fmi). Ci vorrebbero cinque anni di crescita zero del costo del lavoro nei paesi critici per recuperare la competitività che avevano nel ’99. Fino ad allora la crescita sarà debole. La logica economica e quella politica escludono il fallimento diun Paese dell’euro. Ma inserire una clausola di default a partire dal 2013 non ha tranquillizzato gli investitori. I mercati sbagliano spesso, ma non sono per questo meno influenti. E attualmente non sono disponibili a riconoscere che il default abbia probabilità pari a zero. Una delle ragioni è che non conoscono i rischi nascosti nei bilanci bancari. Non sanno cioè la piena dimensione del debito privato che potrebbe diventare debito pubblico e viceversa. In Irlanda, in minor misura in Grecia e Spagna, e nella peggiore delle ipotesi anche in Francia e Germania. Anche in questo caso si tratta di processi che richiedono qualche anno. Le Landesbanken tedesche per esempio diventeranno tre solamente, ma gli interessi politici sono tali che Merkel dovrà andare con piedi di piombo per non lasciarci le penne. E non stupisce che a capo della Bce, e dei suoi nuovi poteri di vigilanza, speri di mettere un tedesco o alla peggio un lussemburghese. Le Cajas spagnole devono cancellare dal bilancio circa 6o miliardi di euro. Nessuna di queste banche ha accesso al mercato e per ricapitalizzarsi graveranno sui debiti pubblici. Le banche europee sono esposte per 150 miliardi col Portogallo. Se ne vendono i titoli di soppiatto che effetto avrà su Lisbona? Il “Grande Accordo” rappresenta una tappa che solo un anno fa sembrava irraggiungibile. Ma non segna la fine della crisi, bensì l’inizio di un nuovo percorso in cui il termometro misurerà la febbre della politica più che della finanza. Gli incidenti saranno ancora possibili come dimostra la crisi in Portogallo. E sarà così, per anni, anche in altri paesi. A cominciare dall’Italia a cui spetta uno dei più impegnativi aggiustamenti fiscali tra i 17 paesi. Non condividere di più le responsabilità fiscali nella gestione della crisi, sta aprendo la fase politica della crisi. L’assenza diuna trasparente corresponsabilità fiscale europea, non mette al riparo i governi, come si illudono i neo nazionalisti. Al contrario: scarica i costi sociali degli aggiustamenti di bilancio interamente sui governi deipaesi debitori e i costi elettorali sui governi dei paesi creditori. Ovunque ci si giri, dalla finanza alla crisi in Libia, la gelosia dei poteri nazionali ha ormai tratti autodistruttivi.
Fonte: Sole 24 Ore del 25 marzo 2011Ora la difficile fase politica della crisi
L'autore: Carlo Bastasin
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