«Tra il ’91 e il ’94 mia madre lavorava per il Governo spiega Andreas Borg, un tipo giovane e sveglio che di mestiere fa il ministro delle Finanze svedese – e perse il posto tre volte durante la crisi finanziaria. Sappiamo che cosa vuol dire, ma ci si tira su». Borg fa parte di una generazione giovane e poco formale – coda di cavallo e orecchino, per intendersi – che ha sostituito l’ideologia con la prassi.
E la prassi l’ha vissuta in famiglia non tanto tempo fa. Così di compassione per le lamentazioni greche ne ha poca.
Quando ci si confronta con la scarsa pazienza dei Paesi del Nord Europa nei confronti dei debiti di Grecia e Portogallo si ha il senso di un semplice pragmatismo: i debiti si pagano. Nulla a che vedere con l’anti-europeismo caricaturale che da un po’ prende piede nei media italiani, un misto confuso di analfabetismo economico, nazionalismo e insofferenza per le regole.
Gli svedesi sono passati da una dura crisi bancaria vent’anni fa, quando lo spread sui tassi tedeschi era salito a 500 punti base e il Paese aveva sfiorato il fallimento. Ora sono l’economia avanzata più dinamica del mondo. Non c’è Paese europeo che cresca di più e il debito pubblico scenderà al 20% del Pil entro il 2014. Dal 2008 a oggi, mentre tutti aumentavano il debito, Stoccolma lo ha ridotto. Le tasse sono scese del 4% e la spesa pubblica, pur aumentando del 3%, è stata più che compensata da una fortissima crescita delle entrate fiscali.
Come la Svezia, anche la Finlandia. Negli anni 80 aveva accumulato debiti e quando è arrivata la crisi del ’91 ha dovuto ripagare tutto entrando in recessione. La disoccupazione è decuplicata in tre anni e il Pil è sceso del 13 per cento. Ma alla fine Helsinki rimborsò i finanziamenti che aveva ricevuto dalla Svezia, così come aveva fatto, forse unico Paese al mondo con i debiti della Prima guerra mondiale, e poi nel dopoguerra quando le donne avevano fuso le vere nuziali per dare l’oro alla patria e tenerla ai margini della sfera sovietica. Durante la crisi del ’91-94 in un solo anno Stoccolma prestò a Helsinki l’equivalente di tutto il bilancio del settore pubblico finlandese. Ci vollero molti anni di dure restrizioni, ma alla fine il debito fu estinto. Ora anche a Helsinki, come a Stoccolma, è difficile convincere i cittadini che i greci sono diversi e che a loro è concesso cavarsela a spese altrui. E lo stesso vale per l’Austria, l’Olanda e in buona parte per la Germania.
Si tratta di neo-nazionalismo? Di bisogni identitari negati da Maastricht? Niente affatto. Quello che si chiede alla Grecia è che faccia quello che hanno già fatto tutti questi Paesi: politica di bilancio molto severa, coesione sociale attraverso un welfare molto ben funzionante, investimenti in tecnologia e un mercato del lavoro efficiente. Nessuno dice che sia facile. Nei fatti si è trattato di cambiare la cultura politica del Paese. A questo serve l’Europa, altro che riscoperta delle identità nazionali, come si dice in Italia.
A Berlino è l’idea di una Transfer Union ad avvelenare gli animi. Si tratta di un concetto che non appartiene all’Europa, ma al bilancio federale tedesco. Ogni anno è previsto per legge un montante di trasferimenti finanziari dalle regioni ricche a quelle povere. Il Transfer è diventato imponente con l’unificazione tedesca, quando le differenze di reddito all’interno della Germania si sono ovviamente molto ampliate. Se gli aiuti alla Grecia fossero la conseguenza di uno shock finanziario globale che avviene una volta ogni secolo, allora non ci sarebbe ragione di pensare che l’euro sia diventato una trappola per i contribuenti tedeschi. Ma se i problemi sono “strutturali”, d’innata inefficienza dell’economia greca, o “culturali”, una diffusa mentalità di parassitismo mediterraneo, allora le cose cambierebbero e i trasferimenti di reddito finirebbero per ripetersi per molti anni a venire. Per questo la mentalità greca deve cambiare e diventare più europea, non più greca…
Dietro la vittoria dei “Veri Finlandesi”, passati dal 4 al 19% dei voti, c’è stata una campagna elettorale condotta su un solo tema: niente soldi alla Grecia e al Portogallo. Certamente ci sono sentimenti localisti e anti-europei quelli ci sono sempre stati in tutti i Paesi d’Europa a partire dal ’92 – ma c’è soprattutto un’esperienza storica vissuta sulla pelle dei cittadini. La stessa esperienza in un certo senso che ha permesso alla politica italiana di muoversi con estrema cautela nella gestione del debito pubblico senza per questo perdere il consenso degli elettori.
Durante una riunione dell’Fmi tra i ministri finanziari, qualcuno ha calcolato che una ristrutturazione del debito greco attraverso un haircut una perdita a carico del creditore – pari al 40% del valore dei titoli corrisponde all’allungamento dell’età pensionabile dei greci di un solo anno. Ma l’ossessione per la ristrutturazione del debito, che domina le cronache, sta mettendo in secondo piano il tema delle riforme strutturali che i Paesi indebitati possono e devono affrontare.
Si tratta di un paradosso in particolare quando le voci di ristrutturazione vengono dalla Germania. Sono proprio i contribuenti tedeschi che accuserebbero le perdite più alte in caso di taglio forzoso del debito greco. Fa capo alla Germania infatti la quota più elevata del capitale della Bce, che ha in portafoglio il 15% dei titoli sovrani greci. Sono inoltre tedesche alcune delle banche più esposte ai debiti della periferia. Inoltre è proprio la Germania ad avere sostenuto, molto correttamente, la necessità di accompagnare gli aiuti finanziari europei a programmi di riforma strutturale dei Paesi indebitati. Se ci fosse un default, allora sì che le perdite si farebbero sentire sui tedeschi e l’antipatia per l’Europa avrebbe una giustificazione.
In linea di coerenza non ci sono dubbi: la Grecia deve affrontare la cura senza sperare in scorciatoie. Quanto agli euroscettici italiani è bene che non parlino a volume troppo alto. Potrebbero sentirli. E forse anche esaudirli.
Euroscettici? No,solo euroetici
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