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Il successo militare forse non basterà. Nella corsa la 2012 conta l’economia

Da «Ground Zero» ai cancelli della Casa Bianca, un’ America colma di una rabbia improvvisamente trasformata in gioia forzata festeggia l’ eliminazione di Osama bin Laden. Barack Obama è l’ indiscusso trionfatore di questo momento che non rimargina la ferita dell’ 11 settembre, ma pone fine a un’ umiliazione – la mancata cattura dello «sceicco del terrore» – durata dieci anni. Il presidente americano ha diretto tutte le fasi della ricerca e della soppressione del fondatore di Al Qaeda, si è assunto la responsabilità di scartare l’ ipotesi del bombardamento del «compound» nei pressi di Islamabad seguendo la strada più rischiosa, ma anche più efficace, dell’ incursione di un «commando». L’ operazione ha avuto successo e ieri il presidente ha ricevuto elogi da tutti, compresi i grandi «falchi» repubblicani – Dick Cheney e Donald Rumsfeld – e Karl Rove, lo stratega politico di George W. Bush. Chi è pronto a scommettere che l’ eliminazione di Bin Laden sarà il trampolino della rielezione di Obama dovrebbe, però, riflettere su quanto accadde nel 1992: anche allora un successo militare sul campo – la liberazione del Kuwait e l’ esercito iracheno ricacciato fino alle porte di Bagdad – aveva indotto gli analisti a giudicare elettoralmente invulnerabile George Bush «padre», l’ allora presidente. E, invece, al voto del 1992 la spuntò Bill Clinton sull’ onda del suo beffardo monito: «It’ s the economy, stupid». Anche nel 2012 sarà l’ economia il fattore determinate del voto: con la disoccupazione sempre elevatissima, il debito pubblico diventato un vincolo soffocante e la benzina a 4 dollari il gallone (prezzo ragionevole per un europeo, ma non per gli americani, abituati a pagarla la metà) fino a due giorni fa tutti erano convinti che Obama si sarebbe giocato le sue «chance» di riconferma sul terreno economico. L’ eliminazione di Osama suscita un’ emozione enorme che sembra cambiare tutti i giochi, ma se non ci sarà una nuova ondata di attacchi contrastati con successo dall’ antiterrorismo Usa, è probabile che da qui a un anno e mezzo l’ impresa di domenica tenda ad affievolirsi nella memoria degli americani. Resterà, invece, ben viva l’ angoscia per una crisi economica che non offre facili vie d’ uscita. Sono in molti a ritenere, poi, che col passare del tempo emergerà in nodo sempre più chiaro che l’ eliminazione di Osama è una chiusura dei conti del passato, più che un’ operazione proiettata verso il futuro: oggi la minaccia terrorista è frammentata e i nuclei più pericolosi – come quelli dello Yemen – pur ispirandosi ad Al Qaeda, non sembrano legati agli uomini di Bin Laden. Nell’ immediato, però, Obama incassa uno straordinario rilancio d’ immagine proprio nel momento in cui, dopo un recupero all’ inizio dell’ anno quando aveva siglato il compromesso coi repubblicani sulle tasse ed era intervenuto in modo fermo e rassicurante dopo l’ attentato di Tucson contro la Giffords, i suoi indici di popolarità erano tornati ai minimi. Al di là dell’ eliminazione fisica di Osama, l’ attacco al «compound» di Abbottabad può offrire al presidente almeno un vantaggio duraturo nella corsa verso la rielezione: dopo aver preso una serie di decisioni nette e rischiose mostrando nervi saldi e assumendosi tutte le responsabilità in prima persona, sarà assai più difficile accusare Barack Obama di mancanza di «leadership». Paradossalmente l’ America che due anni e mezzo fa l’ aveva scelto come presidente convinta che fosse l’ uomo giusto per gestire la grave crisi economica, ma con qualche dubbio sulle sue qualità di «commander-in-chief», oggi si ritrova con un presidente che gli appare più determinato nella lotta al terrorismo che come «capotreno» capace di riportare il sistema produttivo e la finanza Usa sui giusti binari. Superata l’ emozione per il successo dell’ operazione dei «Navy Seals», i repubblicani torneranno ad incalzare Obama anche sulla sicurezza. Qualche segnale si è visto già ieri, con Rove che ha invitato Obama a dichiarare un impegno a oltranza nella guerra contro il terrore inaugurata da Bush, mentre l’ analista democratico Peter Beinart gli propone di approfittare dell’ eliminazione di Osama per smarcarsi dal suo predecessore, dichiarando conclusa la «War on Terror». Senza rinunciare, ovviamente, a colpire i nuclei del terrore in tutto il mondo, ma riportando questa caccia al livello di battaglia condotta dai servizi segreti e dalle forze speciali, senza più la retorica dello «stato di guerra». E’ una scelta che potrebbe mettere in difficoltà Obama. Ma, per trarne vantaggio, i repubblicani dovrebbero essere in grado di opporgli una figura di grande peso. Invece in questa fase è proprio il campo conservatore quello che non riesce a esprimere personaggi che ispirino senso della «leadership».

Fonte: Corriere della Sera del 3 maggio 2011

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