L’entusiasmo a Washington per l’operazione-Osama è altissimo. Si parla dell’inizio di una nuova era geopolitica. La simbologia del nemico liquidato e la novità della primavera araba stanno catturando gli animi. Gli anni Duemila sembrano iniziati l’11 settembre 2001 e finiti il 1° maggio 2011.Ma quale sarebbe allora la nuova era che sta per iniziare? Washington è in piena revisione della situazione. Significativamente l’euforia si è spostata dalle strade ai ministeri e ai centri di studi strategici. Pochi si spingono così lontano dal dire che la morte di Osama segnerà le sorti di al-Qaida e dei movimenti del terrorismo salafita, ma tutti sono convinti che abbia invece cambiato il destino della presidenza Obama e aperto una nuova fase nel ruolo globale degli Stati Uniti. Nella West Wing i consiglieri del presidente si passano i sondaggi che hanno visto salire il gradimento per il presidente dal 59% al 70. Le folle che scandivano Usa di fronte alla Casa Bianca fino al mattino di lunedì hanno dato un segno di unità del Paese che mancava da molti anni. Nei think-tank di Massachusetts Avenue si parla di un «nuovo inizio» per la politica internazionale.
Il presidente Obama è riuscito a collocarsi al centro di questo rapido ridisegno della storia. Da due anni, da quando gli analisti vicini alla Cia ammettevano di non avere idea di dove fosse nascosto il capo di al-Qaida, il presidente aveva chiesto di spostare le risorse dei servizi segreti sulla cattura di Bin Laden. In queste ore Obama ha rimarcato più volte che l’operazione di cattura è frutto di una sua decisione personale. La fortuna lo ha accompagnato. Un suo collaboratore spiega in un incontro presso l’istituto Brookings che «poteva finire come con Carter in Iran e Obama si sarebbe giocato la rielezione». Andranno riscritti i libri di storia? Gli analisti si accontentano di pensare che l’evento pakistano abbia rotto il frullatore orario delle notizie che stava disintegrando e cancellando la politica giorno dopo giorno.
Definendo l’uccisione di Bin Laden come un’occasione per riaccendere l’unità del Paese, Obama ha sfidato il partito repubblicano che al Congresso preparava una feroce battaglia sul bilancio pubblico. Un’intesa bipartisan sul tetto del deficit è ora più probabile. Se si pensa che la revisione delle prospettive del debito pubblico americano da parte dell’agenzia Standard & Poor’s era stata collegata proprio alle divisioni politiche tra i due partiti, si capisce che il vento soffia ora alle spalle di Obama. Ed è possibile che i cittadini tornino a favorirne i toni concilianti. Obama uscirebbe così dai primi due terzi del suo mandato segnati da riforme mal recepite, sanità, regolazione finanziaria e fisco improvvisamente sicuro di sé. E ciò proprio grazie alla politica estera e ai temi di sicurezza nazionale su cui non ha mai avuto credenziali di oro zecchino e sui quali i repubblicani intendevano puntare il dito nella campagna del 2012.
Per tre anni la politica estera di Obama è stata infatti preda di aggiustamenti e incertezze: tra il maggior impegno militare e il ritiro delle truppe in Afghanistan, tra l’obiettivo di spostarne il baricentro nel Pacifico e l’impossibilità di staccarsi dal Medio Oriente. Obama era stato troppo timido ai tempi della rivoluzione verde in Iran e non è mai stato in piena sintonia con i generali sullo scenario di Pakistan e Afghanistan. Ma la sua risposta nel Nordafrica è stata più decisa. In Egitto ha rotto tempestivamente i rapporti con Mubarak contro il parere dei consiglieri del vecchio establishment di Washington. Sulla Libia ha determinato il cambiamento della risoluzione Onu in favore dell’intervento su ampia scala con l’obiettivo di evitare un imminente massacro, ma lo ha fatto cedendo l’iniziativa ad altri. Una strategia che il New Yorker ha definito “guidare da dietro”.
La forza simbolica della morte di Bin Laden offre a Obama la possibilità della svolta dove la primavera araba ne offre invece l’opportunità. Il dato che colpisce è che in entrambi i casi la guerra di territorio non sembra più essere lo strumento che definisce prima di ogni altra cosa la presenza strategica americana.
Negli ultimi dieci anni la politica estera era stata quasi interamente militarizzata. Il bilancio delle politiche d’intelligence era aumentato di venti volte fino a 75 miliardi di dollari nel 2010. La quantità di risorse destinate alle agenzie militari e a quelle di spionaggio aveva spostato anche gli equilibri tra gli strateghi delle relazioni internazionali e tra i consiglieri della Casa Bianca, con quelli militari sempre più importanti e potenti degli altri. Con il risultato di guerre inutili che aggravavano le minacce terroristiche e a cui gli autori delle minacce si sottraevano, come si è visto con lo stesso bin Laden. Nel frattempo i veri cambiamenti prendevano forma altrove. In Cina, in India e finalmente nel Nordafrica, rispondendo a logiche economiche e, nell’ultimo caso, al desiderio di autogoverno dei cittadini. Forse la fase storica del terrorismo non è finita, ma quella di una nuova politica estera non più dettata dai generali potrebbe essere cominciata
Meno militari e più politica
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