Nel corso della crisi globale sono mutate molte cose, ma non il modo in cui i cittadini, i risparmiatori, gli elettori, faticano a uscire dagli schemi nazionali nel capire un mondo, convalescente e complesso, da cui pure hanno scoperto che la loro vita è tanto influenzata. È cambiato certamente il futuro degli Stati, che si sono trovati a tre anni di distanza più indebitati e non più rifugio sicuro per i risparmi dei cittadini.
È venuta alla luce appieno l’interdipendenza tra le economie. Trasferendosi attraverso i canali della finanza la crisi ha dimostrato infatti un sincronismo quasi perfetto in tutto il mondo che si è subito riprodotto nel commercio globale e nelle economie reali. Ma l’indebolimento degli Stati e la loro interdipendenza non hanno creato, come sarebbe logico, un desiderio di comune coinvolgimento. Al contrario nei cittadini sembrano crescere i sentimenti di isolamento.
Una parte della responsabilità è certamente politica, ma un’altra fa capo ai media. Una reazione molto diffusa negli organi di informazione è stata quella nazionalista. Per la sua natura globale, la crisi è stata rappresentata come un attacco venuto dall’esterno rispetto al perimetro geografico dello Stato. Per le opinioni dei media è stato dapprima facile condividere lo stupore dei cittadini, e in seguito porsi al loro fianco nella ricerca di un responsabile e infine individuarlo all’esterno delle proprie mura.
Non si trattava di inventare alcunché: la finanza di Wall Street, i banchieri più spregiudicati, i paesi fiscalmente irresponsabili, hanno tutti offerto ottime giustificazioni per porre i media in sintonia con il diffuso sentimento dell’opinione pubblica di un tradimento esterno. I media hanno potuto cavalcare una campagna emotiva e popolare, quindi “calda” rispetto alla tradizionale freddezza dei temi politici degli anni precedenti.
Questa prima reazione di schieramento ha finito per alimentare se stessa, fino a creare i professionisti del conformismo nazionale. Ci sono organi di informazione che hanno superato per populismo le frange estreme della politica e prosperano su un controsenso: consolano il lettore condividendo ed esaltando i suoi timori.
Non è solo la stampa popolare britannica o quella tedesca a indulgere nel nuovo populismo. È anche la stampa di qualità, dall’Irlanda al Portogallo, dall’Austria alla Francia, dall’Olanda alla Polonia, ad aver scelto la strada del conformismo patriottico. Le colpe sono sempre degli altri. Lo scorso anno i giornali tedeschi rifiutavano analisi che sottolineavano i benefici dell’euro per il Paese. Solo dopo che la cancelliera Merkel ha sdoganato il tema ne sono apparsi alcuni. In Irlanda si rappresenta il Paese come vittima di Bruxelles da cui pure sta ricevendo i fondi per il salvataggio.
Qualcosa di simile vale negli Stati Uniti dove dare la colpa all’Europa – dopo avervi esportato titoli tossici e crisi – è un luogo comune più forte di ogni logica.
Ho chiesto al più acceso euro-critico di Washington se sapesse dirmi quali Paesi fanno parte della moneta unica e ho così scoperto che la Svizzera farebbe parte dell’euro. Un noto guru di Wall Street non conosce la distinzione formale tra un Consiglio europeo e un Eurogruppo. Ma a loro non importa, perché intanto attaccare l’euro attira attorno a sé un certo consenso. Possono finalmente tornare a sventolare la bandiera americana nel mezzo di una crisi che potrebbe cambiare il destino del paese. Se è così per gli intellettuali, figurarsi se i giornali rinunciano a un’analoga opportunità.
Con l’indebolimento delle appartenenze ideologiche, ai giornali è venuto meno un orientamento e uno strumento di identificazione di fronte ai lettori. I clienti degli organi di informazione sono quasi sempre mono-nazionali, così anche i media più sobri hanno assunto la posa di mettersi all’avanguardia nella difesa degli interessi oggettivi del loro paese. Niente di male, anzi, ma da qui a contrapporre gli interessi nazionali propri a quelli degli altri paesi, il passo è molto breve. E la trappola del conformismo nazionale scatta inesorabilmente.
Chi guadagna lettori in Germania dicendo che la crisi europea è anche colpa delle Landesbanken? Chi in Francia può permettersi di dire che schierare la forza pubblica a Mentone contro gli immigrati non è una soluzione del problema tunisino? L’Italia sembrerebbe al riparo da questo conformismo nazionale proprio per la debolezza della politica, continuamente divisa e come tale rappresentata dai media. Ma anch’essa tende a non vedere le ragioni altrui nel decidere le proprie azioni: non sarà conformismo – “deformismo” piuttosto – ma resta nazionalista. Al contrario i temi del dibattito pubblico, dalla campagna di Libia ai problemi dell’immigrazione, dalla proprietà Parmalat a quella Fiat, non sono più solo nazionali.
Purtroppo opinioni nazionali finiscono per produrre soluzioni nazionali. Nel caso dell’area dell’euro corteggiare le opinioni pubbliche nazionali è diventato uno dei maggiori ostacoli al superamento della crisi. La stessa cosa potrebbe avvenire nella politica industriale europea.
La crisi è sempre colpa degli altri
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