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Finito il tempo dei populismi nazionali

Volendo essere ottimisti, questi sono i giorni in cui la demagogia è costretta a fare i conti con la realtà europea. La riunione di ieri dell’Ecofin sulla crisi greca è una delle battute finali di un’epoca in cui era ancora possibile negare l’interdipendenza politica dei Paesi dell’area dell’euro. I margini per il populismo nazionale sono ormai esauriti.
Irlanda e Portogallo sono da tempo riusciti a trovare accordi bipartisan che garantiscono la realizzazione dei piani di aiuto concordati con la Commissione Ue, la Bce e il Fondo monetario. La Grecia – i cui due maggiori partiti, Pasok e Nea Dimokratia, sono responsabili di un decennio di falsa contabilità e inganni europei – no. Così le riforme si sono fermate tra marzo e aprile quando il Governo di Atene si è illuso che un default potesse ridurre i costi politici del risanamento. La lotta all’evasione fiscale si era già arenata e il deficit è sceso meno del previsto. Gli obiettivi del piano concordato con i creditori sono stati mancati.
Entro due-quattro settimane Atene avrà finito i soldi. Se non rispetta il piano, tagliando del 2,5% il rapporto deficit-pil e se non assicura un risanamento credibile entro i 12 mesi successivi, il Fondo monetario – nel cui petto vivono due anime, di cui una non europeista – dovrà negare la propria quota dei prestiti. Gli altri Paesi europei dovrebbero subentrare. Le tensioni politiche aumenterebbero e il percorso diventerebbe una camminata sull’orlo del default. Il primo in un Paese avanzato dal 1948.
Un fallimento che oltre a tutto avverrebbe in modo disordinato: le banche greche chiuderebbero, i capitali fuggirebbero dalla Grecia e i creditori subirebbero perdite pesanti e improvvise. I mercati estenderebbero il rischio di default a tutta la periferia e oltre nel mondo. Come ha spiegato Mario Draghi ieri all’Europarlamento nell’audizione per la candidatura a capo della Bce, non abbiamo bisogno di una nuova Lehman. Il presidente Obama ne sembra consapevole più di alcuni capi di Governo europei, ma è ovvio che uno scenario simile è inaccettabile per tutti. Non è un caso che da un mese sia caduta anche la domanda estera di titoli pubblici tedeschi e francesi.
Tuttavia la solidarietà, come dice il nuovo capo della Bundesbank, Jens Weidmann, riecheggiando Max Weber, non è una strada a senso unico. La Grecia non ha potuto rispettare i patti ed era inevitabile che prendesse forza in Germania, Olanda e Finlandia il tema della ristrutturazione del debito greco. Nuovi finanziamenti richiederebbero infatti l’approvazione dei parlamenti dei Paesi creditori ed è difficile – senza leadership europea – creare consenso nei singoli paesi. L’Eurogruppo e la Commissione hanno guide deboli e lo scontro pubblico tra il ministro tedesco Schaeuble e la Bce ha aperto un nuovo fronte di divisioni europee.
Ma a dimostrazione che il tempo del populismo sta finendo, venerdì scorso il Parlamento tedesco ha dato via libera al secondo credito alla Grecia, ponendo come sola condizione una partecipazione dei privati, che alla fine non potrà che essere simbolica.
Sulla carcassa dello spirito cooperativo europeo si era gettata infatti l’agenzia di rating Standard and Poor’s, secondo cui ogni coinvolgimento non puramente volontario del settore privato nel facilitare il credito alla Grecia configurerebbe un default. Come la Bce temeva. Entro il 20 giugno l’Eurogruppo deve trovare quindi un modo indolore per coinvolgere i privati senza far scattare il default. Quattro giorni dopo i capi di Governo la devono sottoscrivere.
Tra oggi e il 2013 la Grecia deve rifinanziare 95 miliardi di debito pubblico e altri 58 nel 2014. Ha dunque bisogno di oltre 150 miliardi di cui 31 disponibili dal credito del maggio 2010 e 25 dal piano di privatizzazioni già approvato. Ulteriori cessioni statali porterebbero altre entrate. Rimarrebbero 40 miliardi dai Paesi euro, 20 dal Fondo monetario. Il resto, a capo dei “privati” (in realtà banche pubbliche o para-pubbliche), sarebbe poca cosa visti i limiti strettissimi della “volontarietà” necessaria ad aggirare la definizione di “default”.
A ben vedere dunque, il coinvolgimento dei Governi sarà primario. Per ragione o per forza, l’accordo su una soluzione solidale – con la Grecia che raddoppia gli sforzi e i Paesi euro che raddoppiano i crediti – non può non essere trovato. Proprio come nel maggio 2010.
Sarà un momento di maggior coinvolgimento per la politica visto che non è più possibile scaricare gran parte dei costi sulla banca centrale. E’ un passaggio storico in particolare per le visioni nazionali della politica che devono prendere atto dei propri limiti e dei propri doveri. Una delle condizioni per la Grecia per esempio è un accordo politico bipartisan in Parlamento. Qualcosa di impensabile nei decenni passati. Inoltre la cessione di imprese statali a investitori stranieri è vitale non solo a ridurre il debito greco, ma a importare in fretta dall’esterno gli aumenti di produttività indispensabili a far crescere un’economia altrimenti incapace.
I limiti alla sovranità nazionale devono diventare chiari anche per la politica italiana. Le ipotesi ventilate a Roma di rinviare il pareggio di bilancio al 2016 si scontrano con gli accordi sottoscritti a fine marzo 2011 nell’ambito della “soluzione complessiva” per la crisi dei debiti nell’euro area. Sulla credibilità di quei patti si basa la tenuta dell’euro. Si possono gettare dalla finestra? Rientrerebbero dal tetto.

Fonte: Sole 24 Ore del 15 giugno 2011

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